sabato 07 dicembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Shalom Rassegna Stampa
10.11.2024 Come cambia la guerra dopo la vittoria di Trump
Analisi di Ugo Volli

Testata: Shalom
Data: 10 novembre 2024
Pagina: 1
Autore: Ugo Volli
Titolo: «Che cosa cambia nella guerra dopo l’elezione di Trump»

Riprendiamo da SHALOM online l'analisi di Ugo Volli dal titolo "Che cosa cambia nella guerra dopo l’elezione di Trump".

Amazon.it: Mai più! Usi e abusi del Giorno della Memoria - Volli, Ugo -  Libri
Ugo Volli

Con Trump alla Casa Bianca, Netanyahu avrà più possibilità di condurre la guerra secondo il suo piano: non solo la difesa di Israele, ma anche la vittoria totale su Hamas e su Hezbollah e la fine del programma nucleare iraniano. Il licenziamento (con tempismo perfetto) del ministro della Difesa Gallant, è sintomo di questo cambio di passo.

Tre fatti nuovi
La cronaca dell’autodifesa di Israele dalla guerra che gli è stata portata dall’Iran, inizialmente usando i terroristi di Hamas e di Hezbollah, deve registrare tre novità. Sono accaduti due eventi importanti e in parte imprevisti (l’elezione così larga e indiscutibile di Trump e il licenziamento del ministro della Difesa Gallant). Uno che invece ci si aspettava e non è successo, almeno per ora: il terzo tentativo di bombardamento di Israele da parte dell’Iran come contro-rappresaglia all’attacco israeliano che ne ha fortemente danneggiato le fabbriche di missili e la difesa antiaerea il 25 ottobre scorso. Non è detto che l’Iran non riprovi anche presto a colpire Israele con i suoi missili e droni, ma il suo attacco era stato previsto e quasi annunciato “prima delle elezioni americane” e invece ancora gli ayatollah sembrano incerti su quel che possono fare. Nel frattempo Israele continua a eliminare i terroristi e le infrastrutture che li sostengono – cioè il grande investimento bellico dell’Iran – a Gaza e in Libano, in Giudea e Samaria e perfino in Iraq.

Che cosa cambia
Questi tre fatti vanno nella medesima direzione: il rafforzamento dell’offensiva strategica israeliana e la costruzione di un nuovo quadro politico e militare in Medio Oriente. L’amministrazione Biden era ben ferma nel non permettere la distruzione di Israele e dunque nell’ultimo anno l’America è stato un alleato indispensabile. Ma allo stesso tempo Biden non ha consentito la costruzione delle condizioni strategiche per la sua vittoria: sia perché la sua amministrazione ha portato avanti l’illusione di Obama di una possibile, anzi necessaria, pacificazione con il regime iraniano, che non bisognava dunque colpire troppo duramente, sia perché essa aderiva alla bizzarra teoria della “proporzionalità” nella conduzione della guerra, per cui non si dovrebbero infliggere danni troppo elevati (questo vuol dire “sproporzionati”) al nemico quando è possibile colpirlo: la ricetta sicura per non vincere le guerre. Trump non ha mai condiviso queste idee. La sua precedente amministrazione aveva sviluppato anzi la teoria della “massima pressione” politica, economica e militare per domare il regime degli ayatollah, e tutti ritengono che essa sarà rinnovata ora. Il fatto poi che sia appena stato scoperto dall’FBI un altro tentativo di assassinio di Trump promosso e finanziato direttamente dal governo iraniano, non aumenterà certamente la benevolenza del nuovo presidente per gli ayatollah. È probabile dunque che l’amministrazione Trump darà a Israele quell’appoggio necessario a distruggere il programma nucleare dell’Iran, che Biden gli aveva negato. Ci sono già stati effetti indiretti di questa situazione, come lo sfratto che sembra il Qatar abbia finalmente imposto ai capi di Hamas da sempre ospitati nell’emirato.

Il cambio di ministro della Difesa
Anche il cambiamento della squadra di governo in Israele va in questa direzione. Senza entrare nelle questioni della politica interna israeliana, è chiaro che il dissenso fra Netanyahu e Gallant durava da tempo, causato da valutazioni completamente diverse sulle prospettive della guerra. La prospettiva di Gallant, e per quel che si capisce dello stato maggiore delle forze armate, era simile a quella dell’amministrazione Biden: limitare la guerra, cercare dei compromessi con Hamas e Hezbollah per liberare i rapiti e far finire le incursioni missilistiche su Israele, fare delle tregue che potessero prolungarsi a lungo, anche al costo di lasciare Gaza e il Libano sotto il dominio dei movimenti terroristici, e di fornire loro i sostituti per i capi eliminati durante la guerra, liberandoli dalle prigioni israeliane, consentendo così loro di riorganizzarsi e rifornirsi. “Tanto potremo sempre ritornarci”, diceva Gallant a proposito del punto più strategico di Gaza, il corridoio Filadelfia al confine con l’Egitto, da cui passano i rifornimenti per Hamas e il cui abbandono è posto dallo stesso Hamas e anche dall’Egitto come condizione di ogni tregua.

L’offensiva strategica
Il punto di vista di Netanyahu è opposto: “vittoria totale” è il suo slogan, che significa non lasciare che Hamas torni a Gaza e che Hezbollah ritorni ad essere il potere dominante del Libano, capace di bombardare come sta facendo le città israeliane; bensì distruggerne il potere militare e le strutture di comando; assicurarsi la possibilità di intervenire a Gaza e nel Libano meridionale ogni volta che si individuino tentativi di concentrazioni terroriste o costruzioni di strutture militari; eliminare il potenziale aggressivo dell’Iran, in particolare dell’apparato nucleare e missilistico e cercare così di favorire un cambio di regime. Nonostante le resistenze americane e dello stato maggiore espresse da Gallant, Netanyahu è riuscito nello scorso anno a far passare almeno in parte la sua linea, a forza di pazientare, di accettare in parte i diktat americani e di cercare di aggirarli. Ora, ma soprattutto dopo il 20 gennaio, quando Trump inizierà davvero a governare, sarà assai più facile far passare l’offensiva strategica.

Due mesi delicatissimi
Al di là delle roboanti dichiarazioni di facciata, la dirigenza iraniana si rende probabilmente conto di essere in una situazione molto difficile. Ridotto al banditismo Hamas, su cui aveva investito moltissimo denaro, tante armi e prospettive politiche; in via di smantellamento anche se ancora capace di far danni Hezbollah, su cui l’Iran aveva investito ancor più che sui terroristi palestinesi e che considerava il suo bastione di deterrenza e la “legione straniera” da usare nelle sue guerre coloniali; persa ogni illusione di poter fermare le rappresaglie aeree israeliani, con l’antiaerea accecata e l’aviazione vecchia; detestata da parti crescenti del suo popolo (i giovani urbani, le donne, le minoranze nazionali) – ora la dittatura iraniana ha perso anche la non ostilità dell’amministrazione americana e può contare solo sulla Russia, che però ha altro a cui pensare, soprattutto in Ucraina. È probabile dunque che la dirigenza degli ayatollah cerchi di prendere delle iniziative per sottrarsi all’offensiva israeliana e guadagnare il tempo per far funzionare l’armamento nucleare che la renderebbe difficilissima da abbattere. Questa è la partita principale che si svolgerà nei prossimi delicatissimi due mesi in cui gli Usa saranno governati da un’amministrazione duramente delegittimata dalle elezioni: una corsa contro il tempo soprattutto sulle bombe atomiche, che Netanyahu dovrà forzare, anche vincendo le ultime resistenze dei democratici americani.

Per inviare a Shalom la propria opinione, telefonare: 06/87450205, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


redazione@shalom.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT