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Moked Rassegna Stampa
05.07.2021 Libia: la distruzione delle tracce della presenza ebraica
Analisi di David Meghnagi

Testata: Moked
Data: 05 luglio 2021
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «La distruzione delle tracce»
Riprendiamo da MOKED di oggi, 05/07/2021, con il titolo "La distruzione delle tracce" il commento di David Meghnagi.

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David Meghnagi

Gli ebrei-italiani di Libia: una comunità senza volto, da Mussolini a  Scalfaro

Nel marzo del 1961 le proprietà degli ebrei che avevano lasciato la Libia nel grande esodo seguito alla nascita di Israele furono messe sotto “custodia” dello Stato. Analogamente a quanto accaduto in altri paesi arabi, si trattò di un furto programmato. All’indomani della nascita di Israele, per lasciare il Paese gli artigiani ebrei avevano dovuto insegnare l’arte di un mestiere trasmesso per secoli a chi era subentrato per pochi spiccioli. Si trattò di un accordo condotto alla vigilia dell’indipendenza del Paese, sotto l’egida degli Alleati. In base agli accordi che avevano portato all’indipendenza della Libia, gli ebrei rimasti nel Paese, avrebbero avuto diritto alla cittadinanza. Come prevedibile, le cose andarono diversamente. La cittadinanza fu concessa a poche famiglie introdotte e alla scadenza i passaporti non venivano facilmente rinnovati. La maggioranza degli ebrei rimasti nel Paese si ritrovò in limbo giuridico. Nel 1967 quando gli ebrei di Libia arrivarono in Italia con un lasciapassare turistico rinnovabile ogni tre mesi (le autorità libiche si erano così tutelate da eventuali rivendicazioni per i danni subiti in seguito al pogrom del 1967), si videro rifiutata anche la possibilità di ottenere il passaporto di apolide delle Nazioni Unite. La funzionaria delle Nazioni Unite alla quale mi ero rivolto per avere una spiegazione, mi disse che non essendo fuggiti dall’Europa orientale, ma da un Paese arabo, gli ebrei libici non avevano diritto al passaporto delle Nazioni Unite. Il governo voleva sapere da ogni famiglia l’elenco dei parenti emigrati e dove fossero. A casa conservavamo delle foto dei nostri parenti che ci erano state inviate da Israele, tramite conoscenti che vivevano in Italia. Ogni tanto le autorità volevano sapere che fine avesse fatto mio fratello Simon, che aveva lasciato il Paese nel 1960 e dall’Italia si era trasferito in Israele. Nel caso di una perquisizione, le foto di una maggiorità religiosa o di un matrimonio, la foto di una spiaggia e una breve lettera carica di nostalgia per la separazione, avrebbero potuto essere considerate un corpo di reato. Gli ebrei libici non potevano lasciare liberamente il Paese. In caso di partenza, per ragioni turistiche, di salute o di studio, c’era sempre qualcuno che doveva restare in ostaggio. Mio padre fece distruggere ogni traccia. Passammo un’intera notte a distruggere le lettere e le foto dei nostri parenti in Israele, cartoline di auguri che avevamo conservato come beni preziosi, profumi di un passato e promesse di un futuro diverso. Le lettere e le foto furono bruciate e disperse attraverso le fognature del bagno. Distruggere quelle foto fu per un’esperienza atroce e prima di farlo feci di tutto per imprimerne nella mente le immagini e il contenuto delle lettere in cui la zia ci augurava di rivederci un giorno. Non sapevo se avrei mai incontrato i nonni e cugini che avevano abbandonato il Paese quando avevo uno o due anni. Mi consolava il fatto che fossero vivi e che insieme ad altre centinaia di migliaia di ebrei fuggiti dal mondo arabo stavano ricostruendo le loro vite.

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