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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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L'Opinione Rassegna Stampa
14.11.2013 Antisemitismo in Europa
Michael Levi intervistato da Leonardo Losito

Testata: L'Opinione
Data: 14 novembre 2013
Pagina: 1
Autore: Leonardo Losito
Titolo: «Antisemitismo, l'intervista a Levi»

Riportiamo dal sito internet delll'OPINIONE l'intervista di Leonardo Losito a Michael Levi dal titolo "Antisemitismo, l'intervista a Levi".


Michael Levi

Il paragone di Berlusconi tra la persecuzione nazista degli Ebrei e l’accanimento politico-mediatico che accompagna da tempo lui e la sua famiglia (in primis i figli) ha suscitato diverse reazioni della Comunità ebraica italiana. Il tema, delicatissimo, è stato ripreso ampiamente sulla stampa con un’estrapolazione dall’ultimo volume mondadoriano di Bruno Vespa, suscitando comprensibili reazioni di diversi e autorevoli rappresentanti della Comunità ebraica italiana. Oltre che piccate levate di scudo del fronte opposto al Cavaliere. Le implicazioni storiche, culturali e spirituali che la questione sottende sono indubbiamente di uno spessore molto profondo e andrebbero forse tenute al riparo dai livelli non sempre eccelsi che spesso da noi assume la dura dialettica dello scontro politico. Da Varsavia, abbiamo chiesto un approfondimento ad un giovane leader dell’Ebraismo europeo.

Parliamo di Michael Levi, membro del direttivo e vicepresidente di Beit Polska, l’istituzione che raggruppa in Polonia le Comunità ebraiche liberali aderenti su scala mondiale alla prestigiosa “World Union of Progressive Judaism”. L’ingegner Levi, 43 anni, laurea al Politecnico di Milano, ha lavorato con grandi multinazionali ed è oggi impegnato in Italia come imprenditore nel settore oil & gas e petrolchimico internazionale. Per diversi anni Levi è stato tra le figure di spicco della “Jewish Renaissance” in un Paese martoriato dalla Shoah come la Polonia. Suo padre, Nisso Levi, è stato tra i primi collaboratori di Enrico Mattei all’Eni; la sua famiglia proviene da un antico ceppo della diaspora ebraico-sefardita, legata da secoli alla grande tradizione rabbinica egiziana. È anche noto il suo storico legame parentale già dal Medioevo con il grande Rambam (Rabbi Moshe Ben Maimon). L’attività imprenditoriale internazionale non è mai stata di ostacolo ai suoi radicati interessi intellettuali per l’Ebraismo contemporaneo.

Ingegner Levi, come riassumerebbe la valenza concettuale e il significato odierno della memoria?

Noi ebrei siamo un popolo che ricorda, un popolo che si contraddistingue perché si sforza di ricordare sempre e di non far dimenticare la propria storia: il bene e il male, i momenti drammatici, gli eroi e i giusti, le vittorie, le persecuzioni e le responsabilità. La nostre più importanti festività sono legate al culto memoriale della nostra storia biblica. Anche il ricordo della Shoah è per noi un dovere, un modo per compiere la nostra missione di Tikkun Olam, cioè di contribuire a preservare il mondo dall’ingiustizia e dalla violenza. La Shoah per noi è inviolabile perché se se ne permette la gratuita banalizzazione, o peggio ancora la negazione, vuol dire che il mondo si piega di nuovo sconfitto di fronte alla cieca violenza e all’ingiustizia.

Parole forti, le sue: si riferisce anche a quanto si è letto ultimamente sulla stampa a proposito dell’analogia espressa da Silvio Berlusconi tra l’odio feroce dei nazisti per gli ebrei e l’accanimento mediatico e giudiziario di cui lui si sente vittima insieme alla sua famiglia?

Ho dovuto attendere alcuni giorni prima di potermi esprimere serenamente sulla frase immediatamente scioccante dell’ex premier, Silvio Berlusconi. È un accostamento di cui riesco a comprendere le ragioni per cui da molti ebrei in ogni parte del mondo possa essere considerata sbagliata e devastante questa sua allusione analogica e retoricamente strumentale alla Shoah, che è stato uno dei peggiori crimini della storia umana. Io ho vissuto diversi anni in Polonia. Ho visto molti ghetti e conosco la loro storia. Ho visitato molti campi di concentramento e di sterminio e so qual è l’orrore che ancor oggi si cela dietro a quei recinti e a quelle rovine. Ho parlato con diversi sopravvissuti allo sterminio, alcuni sono miei amici. Conosco i drammi delle loro famiglie e le loro sofferenze. Per questo mi rattrista davvero tantissimo che anche una singola frase improvvida abbia potuto recare danno e dolore ulteriore a persone che non lo meritano, ad esseri umani che hanno il diritto di godere in tranquillità gli ultimi anni di una vita segnata dalla paura, dagli incubi e dai ricordi. Per tutte queste ragioni, mi sembra quindi chiaro che non è possibile paragonare la situazione della famiglia Berlusconi con quella degli ebrei nei ghetti europei e con la sofferenza dei gelidi campi di concentramento nazisti in Polonia, in cui la regola quotidiana era la violenza e la morte.

Su questa vicenda, lei quindi esprime un giudizio negativo. Può esplicitarne meglio il senso?

Io non giudico. Cerco solo di ragionare senza smarrire il contesto di ciò che stiamo discutendo. Spero solo che l’ex premier sappia porre rimedio a questo errore. Detto questo, avverto anche l’esigenza di chiarire alcuni punti fondamentali. E le spiego perché. Conosco di persona sia Silvio Berlusconi che la sua famiglia e per quel che mi consta posso assicurare che sono ben distanti sia da pregiudizi antisemiti che dal razzismo. È una famiglia sana e solidale che ovviamente soffre per la campagna mediatica e politica da tempo in corso contro di loro. Ritenere che Silvio Berlusconi o, ancora peggio, tutta la sua famiglia, sia responsabile di tutti problemi degli italiani, compreso l’alto tasso di pregiudizi antiebraici purtroppo da noi ancora circolanti, è solo propaganda disonesta. I problemi italiani sono ben altrimenti radicati nel nostro Paese: prima che altri, è innanzitutto il debito pubblico ad essere oneroso per tutti a causa dei forti interessi passivi ad esso connesso. E le cause sono da ricercare in una cattiva gestione del Paese, con forme di corruzione e di clientelismo politico sicuramente antecedenti e non riconducibili tout court all’esperienza politica di Berlusconi.

Ma non ritiene che anche in momenti difficili e di forte tensione emotiva, sia privata che pubblica, un personaggio di alta visibilità internazionale debba sempre ben soppesare le sue esternazioni?

Quel che posso dire è che uno statista lo si può e anzi lo si deve valutare anzitutto per i suoi atti di concreto spessore istituzionale. È all’interno dei contesti protocollari che il simbolismo del dire e del fare si carica di elementi significativi per tutta la collettività. Personalmente, di Berlusconi io non posso non ricordare la sua visita al Museo della Storia della Shoah di Gerusalemme, dov’è raccolta e custodita la documentazione sulle crudeltà più efferate subite dagli ebrei di tutto il mondo. Berlusconi lo visitò da primo ministro il 1 Febbraio del 2010: cioè a dire, con meditato tempismo, a pochi giorni dal giorno della Commemorazione Europea della Shoah. In quella occasione, ad accompagnarlo nel percorso del ricordo c’erano il ministro dell’Educazione di Israele, Gideon Sa'ar e il direttore del museo dello Yad Vashem, Avner Shalev. E ricordo anche che questa fu la seconda visita di Berlusconi al museo: la prima l’aveva fatta dieci anni prima, nel 2000. Entrambi i dignitari israeliani rimasero colpiti dalle sue reazioni durante la seconda visita di Stato: in special modo dal dolore che provò sia visitando le sale che nel guardare i documenti. Il direttore del museo di Yad Vashem lo ricorda con queste parole: “Lo abbiamo visto di fronte a cose che lui non era in grado di elaborare, con la cruda verità. Non è venuto semplicemente per passare attraverso il museo: si è fermato, ha guardato da vicino, ha dettato il ritmo, ha preso il suo tempo. Ha detto di aver subito un’esperienza interiore travolgente e che ci vorrà molto tempo per maturarla ed elaborarla”.

In altri termini, quello che un personaggio pubblico ha detto in passato pubblicamente, ieri, può anche essere invocato a scusante di una gaffe successiva, oggi?

Guardi, linguisticamente io sono di solito alle prese con i registri espressivi del business, fatti più che altro di freddi numbers and figures anziché di metafore, similitudini e sfumature retoriche. Io mi limito esclusivamente a sottolineare che se le parole contano, esse devono contare sempre e per tutti, specialmente quando le si scrive. Il diritto di critica è fuor di dubbio un pilastro inalienabile della Democrazia. Nondimeno, lascerei volentieri agli specialisti di discipline come l’Ermeneutica e la Filologia il compito di assemblare, confrontare e valutare quello che un politico e uno statista scrive in un momento di alta rappresentatività collettiva, rispetto a quanto può dire a voce in un momento di stress.

Comprendo il suo auspicio, ma non vorrà dirmi che questioni scottanti come quelle di cui noi stiamo discutendo sarebbe meglio lasciarle in appannaggio al ristretto circolo dell’Accademia?

Nient’affatto, anzi! Penso che tra le tante categorie professionali di gente che (al servizio dello Stato) legge, scrive e parla per mestiere, prim’ancora che ai polemisti di partito o ai mass media politicamente schierati spetterebbe ai diplomatici intervenire prontamente. Specie quando si verificano episodi di per sé criticabili e incresciosi che travalicano tematicamente i confini nazionali. Come ad esempio accadde nel 2008, quando un ministro degli Esteri italiano in carica (e per di più ex presidente del Consiglio) in svariate occasioni prese posizione a favore di Hamas sul difficile e tuttora irrisolto tema negoziale israelo-palestinese. Io ricordo che in quel caso, mentre dall’Ambasciata di Israele a Roma ci furono repliche abbastanza risentite, sull’operato di Massimo D’Alema ci fu, salvo rare eccezioni, un assordante silenzio di elzeviristi e anchormen del servizio televisivo pubblico: persino di fronte all’oggettiva gravità della solidarietà espressa ad alleati di un’organizzazione come Hezbollah, che oggi viene ritenuta terrorista dalla stessa Unione Europea. Sono queste le ferite che ci fanno più male. E non sono le uniche: perché a volte una mancata condanna o anche solo il silenzio su chi apertamente ancora ci perseguita, brucia di più di parole sbagliate dette da un leader politico come Berlusconi, che per anni si è impegnato nella difesa sia della Comunità ebraica che di Israele.

D'accordo. Ma posto che le parole abbiano un peso spazio-temporale variabile, come si rimedia al rischio della discrezionalità di quel che possono significare per la gran massa di chi le riceve?

Il problema esiste e affrontarlo è sempre molto complesso. Però, vede, se partiamo dalla dolorosa constatazione che il popolo ebraico è uno dei pochi al mondo che pur avendo subito un terribile crimine durante la Seconda guerra mondiale ancora oggi debba continuare a lottare per difendersi, è evidente che insieme al chi ne è l'autore, dovrà pur contare qualcosa il dove, il quando, il come e il perché certe cose si scrivono o si dicono. E per quel che riguarda un argomento delicatissimo e sempre scottante come la persecuzione degli ebrei, le sue parole Silvio Berlusconi le lasciò scritte, con tutto il dolore che esprimono, sul libro degli ospiti del Museo di Gerusalemme: “La nostra anima urla, non può essere vero, questo non può essere reale. Ma poi, sconfitta e rassegnata, dice: mai più”. In quegli stessi giorni Silvio Berlusconi fu ricevuto in visita alla Knesset, il Parlamento di Israele: privilegio questo che viene riservato ai più grandi amici del popolo ebraico e di Israele. Benyamin Netanyahu lo accolse ricordando un episodio che fa parte della storia della Shoah e che onora i giusti che aiutarono gli ebrei perseguitati in tutta Europa, compresa l’Italia. Una storia che creò profonda commozione in quell’aula. Il premier israeliano raccontò la storia di una donna giusta italiana, incinta di otto mesi, che riuscì a salvare una ragazza ebrea da un poliziotto tedesco, e raccontò quella storia con queste parole: “Quella signora coraggiosa si chiamava Rosa e uno dei suoi figli si chiama Silvio Berlusconi”.

E dunque, quali sarebbero le sue conclusioni al riguardo?

Io credo che la frase contestata a Berlusconi, seppur sbagliata per esagerazione e superficialità, non fosse assolutamente rivolta contro gli ebrei e non intendesse in alcun modo sminuire la Shoah od offendere il popolo ebraico. Il fatto che secondo molti osservatori anche internazionali in Italia ci sia ormai un clima di crisi con possibili esiti pre-elettorali, non significa che nel consueto bailamme debbano entrare questioni per noi sacre e meritevoli di rispetto al di là dei singoli schieramenti. Molto semplicemente, non lo permetteremo. Trovo invece che sarebbe molto più opportuno per tutti riflettere su quanto appena qualche giorno fa è stato denunziato da un rapporto pubblicato a Vienna dall’Agenzia dell’Ue per i Diritti fondamentali: purtroppo, è l’Italia ad essere in cima ad una classifica di Paesi in cui circolano impudentemente su Internet ingiurie, insulti e messaggi vari di intolleranza antisemita.

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