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L'Opinione Rassegna Stampa
09.05.2008 Dossier Israele
a 60 anni dalla Fondazione

Testata: L'Opinione
Data: 09 maggio 2008
Pagina: 0
Autore: Romano Bracalini - Stefano Magni - Alessandro Litta Modignani - Dimitri Buffa
Titolo: «I falsi Protocolli dei Savi di Sion E la gaffe di Vattimo - Israele, due generazioni dopo l’indipendenza - L’Europa si chiede: morire per Gerusalemme? - Onu e Israele: 60 anni di odio ideologico»
L'OPINIONE dell'8 maggio 2008 dedica uno speciale ai 60 anni di Israele.
Di seguito, l'articolo di Romano Bracalini  "I falsi Protocolli dei Savi di Sion E la gaffe di Vattimo":

Alla fazione antisemita di casa nostra, che alla fiera internazionale del libro di Torino ha promosso il boicottaggio di Israele col repertorio d’infamia degno delle trivialità della “Difesa della razza” e di “Quadrivio”, s’è aggiunto (e come poteva mancare!) l’illuminato pensiero di Tariq Ramadan, l’intellettuale musulmano d’origine egiziana, che predicando la cancellazione dello stato di Israele merita di essere annoverato tra i promotori di spicco di questa campagna d’odio che lega insieme elementi solo apparentemente “spuri”. Così il quadro ora è completo. Comprende “negazionisti”, “complottisti”, come il Giulietto Chiesa per il quale le Torri Gemelle sono state abbattute dal Mossad israeliano e nessuno ha chiamato la neuro; seguaci più o meno mascherati di Al Qaeda e dei Fratelli Musulmani, come il sullodato Ramadan, che ha un nome che evoca estenuanti digiuni orientali ma in realtà trabocchevole e sazio di cattive intenzioni; clericofascisti, come il professor Franco Cardini; vetero stalinisti come il filosofo Gianni Vattimo il quale in un raptus di delirio “antisionista” (se non è zuppa è pan bagnato), ha perfino rievocato, nell’intento forse di restaurarne l’autenticità, i famigerati “Protocolli dei savi di Sion” diffusi come veri nell’Europa totalitaria tra le due guerre per alimentare l’odio contro gli ebrei e motivarne la crociata nazifascista. Presentati come un “documento dell’odio giudaico”, i falsi protocolli trovarono il loro più entusiasta esegeta nel segretario del GUF di Cuneo, Giorgio Bocca, firmatario del manifesto della razza nel 1938, il quale sulla “Provincia Grande”, del 14 agosto 1942, scrisse: “Sono i Protocolli dei Savi anziani di Sion un documento dell’Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo ebreo intende giungere alla dominazione del mondo (…)

Il testo, dopo aver enunciato il principio che diritto è uguale a forza, descrive i mezzi e indica i risultati a cui il popolo ebreo è già arrivato e quali mete dovrà ancora raggiungere per possedere il monopolio della forza, cioè del diritto, cioè del dominio del mondo. In questo intento il popolo eletto, sparsosi per volontà di Dio in tutte le parti del mondo, ha lottato e lavorato per allontanare i ‘gojm’, i ‘gentili’ (i non ebrei) sempre più da una visione realistica della vita, per gettarli in braccio all’utopia, per indebolire la forza dei loro governi e per carpire nel frattempo le loro sostanze per mezzo della speculazione...”. Amore per il quattrino che accomunava i “giudei” ai plutocrati americani. Il fatto è che anche in Unione Sovietica gli ebrei erano decaduti da ogni ruolo nel partito ed erano cominciati i “pogrom” come in Occidente. Ma la propaganda dei partiti comunisti “fratelli”, specie in Italia e in Francia, ebbe poi l’accortezza di pubblicizzare quasi soltanto i campi di sterminio nazisti tacendo sugli ebrei morti nei gulag. Vattimo ha solo ricomposto l’anello mancante dicendoci, in pratica, che fascismo e comunismo (scelga lui quello che più gli aggrada) hanno in comune l’odio antisemita che ritorna, quello sì.

Un'intervista di Stefano Magni a Yasha Reibman, vicepresidente e portavoce della Comunità Ebraica di Milano

Oggi lo Stato di Israele compie 60 anni. Sessant’anni sono due generazioni. Per un ebreo europeo nato negli ultimi due decenni, il sogno sionista è un ideale dei suoi nonni. Eppure, mai come in questi otto anni di guerra al terrorismo, si è discusso così tanto del rapporto tra le Comunità Ebraiche e Israele. Ieri, sul Monte Herzl (dedicato al padre del sionismo), veniva celebrato il giorno dei caduti nelle guerre arabo-israeliane: 22.437 giovani e giovanissimi che hanno sacrificato la loro vita per difendere l’unica democrazia del Medio Oriente nel 1948-’49, nel 1956, nel 1967, nel 1973, nel 1982 e nella più recente guerra contro Hezbollah del 2006. Oggi, nelle nuove generazioni di ebrei europei, quanto è forte ancora questa tensione ideale? Ne abbiamo discusso con Yasha Reibman, giovane medico psichiatra milanese, vicepresidente e portavoce della Comunità Ebraica di Milano.

Dottor Reibman, sono passate già due generazioni dalla fondazione dello Stato di Israele. Come viene percepito, oggi, dai giovani della Comunità Ebraica?
Un grande rabbino della Comunità Ebraica milanese, David Schaumann, diceva che l’Ebraismo è composto da tre concetti: Torah, Popolo e Israele. Quindi è impossibile pensare all’Ebraismo senza questa sua dimensione. Era presente anche nei secoli della diaspora, oggi è uno Stato indipendente e sovrano e per gli ebrei che sono nati negli ultimi decenni è ormai impossibile pensare ad un mondo senza Israele. Ha sempre fatto parte dell’identità ebraica, prima come sogno, come speranza e come preghiera, oggi come realtà dei fatti, concreta e tangibile. Anche per chi non ci ha mai vissuto, per chi è cittadino di un altro Paese, Israele è sempre un punto di riferimento ideale.

Nel 2006, molti volontari ebrei, cittadini delle democrazie occidentali, tornarono in Medio Oriente per combattere contro Hezbollah. Quanto è forte, ancora, la volontà di battersi per la difesa di Israele?
Lo storico e veterano delle guerre arabo-israeliane Vittorio Dan Segre sostiene che l’eredità del sionismo è soprattutto una: prima della nascita di Israele si potevano massacrare gli ebrei gratuitamente e senza fatica, oggi occorre pagare un prezzo molto alto. Ogni ebreo, ovunque viva, si pone la questione se andare a difendere lo Stato ebraico. La partenza dei volontari che vanno a combattere lontano dalle loro case per difendere un ideale, è comunque un’immagine molto bella. E’ un fenomeno conosciuto storicamente in molti Paesi. Richiama alla memoria le Brigate Internazionali: volontari da tutto il mondo che accorsero nella Spagna repubblicana per difenderla dal franchismo. Oppure anche i volontari italiani e americani che andarono a combattere in Francia nella I Guerra Mondiale, quando i loro paesi non erano ancora in guerra. Nel secolo scorso, questa tensione ideale era ben diffusa anche in Europa. In Israele c’è ancora, perché è un Paese che, per molti, anche non ebrei, rappresenta un sogno. E’ un miracolo il solo fatto che, nel deserto costituito dalle dittature mediorientali, riesca a sopravvivere questa piccola oasi di democrazia, nonostante 60 anni di guerra continua.

A causa del terrorismo palestinese e della minaccia di guerra nucleare lanciata dall’Iran islamico, oggi vivere in Israele è molto più rischioso rispetto alla vita tranquilla in un paese europeo o in America. Per questo motivo, Israele può ancora essere considerato come un rifugio per gli ebrei del mondo?
Solo la storia potrà rispondere a questa domanda. Israele cesserà di essere patria e rifugio per gli ebrei se il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad riuscisse veramente a costruire le sue armi nucleari e a usarle, se dovesse realizzare il suo terribile sogno di cancellare l“entità sionista” dalla carta geografica. La stessa tragedia, però, potrebbe ripetersi anche nelle pacifiche democrazie europee, se i pestaggi, gli attentati, le profanazioni dei cimiteri ebraici e la riproposizione della propaganda antisemita cessassero di essere episodi isolati, ma diventassero fatti quotidiani e continui. Israele può sopravvivere, ma bisogna vedere se nelle democrazie occidentali vi siano sufficienti anticorpi contro il fondamentalismo islamico, sia quando si presenta lontano, in Iran, sia quando si incarna in movimenti estremisti che crescono qui in Europa. E’ questa la grande scommessa politica del prossimo secolo. Da quello che vedo, gli italiani hanno idee chiare su quale sia la posta in gioco. L’immagine prevalente negli anni scorsi, quella di uno Stato ebraico potente e aggressivo che vittimizza i poveri e deboli palestinesi, oggi si è quasi del tutto ribaltata: oggi Israele è vista prevalentemente come una nazione che cerca di arginare l’integralismo islamico.

Tra tutti coloro che contestano lo Stato ebraico, tra gli intellettuali occidentali, emerge soprattutto un solo argomento: accusano Israele di essere mono-nazionale, a cui contrappongono un ideale di Paese democratico e bi-nazionale...
Ma nei fatti, già oggi Israele è uno Stato bi-nazionale. La comunità araba esiste, è numerosissima, il 20,1 per cento (1.146.000 persone) della popolazione. Solo entro i confini israeliani, contrariamente al resto del Medio Oriente, un cittadino arabo può criticare il suo governo, votare, essere libero di esprimere le sue idee e alla sera tornare a casa sua con la certezza di non essere arrestato arbitrariamente dalla polizia. Fa specie sentire quanta gente dia buoni consigli a Israele su come fare la pace. E’ come una malattia: si riesce solo a vedere un piccolo pezzo del problema, si giudica solo in base a quello che accade dentro una minuscola tessera di un puzzle. Ci si rende conto che è un Paese circondato da dittature che non ne tollerano neppure l’esistenza?

Un articolo di Alessandro Litta Modignani sulla proposta di far entrare Israele nell'Unione Europea e nella NATO:

Parafrasando una celebre espressione di Massimo D’Alema, si potrebbe dire che le diplomazie europee, nella questione mediorientale, stanno facendo ricorso a un “uso sproporzionato” della mediocrità. Verrebbe da chiedersi: l’Europa è un’espressione geografica o una comunità politica? La risposta naturalmente è la seconda, poiché il vecchio continente trova il suo fondamento nella democrazia e nello Stato di diritto. Ma allora che senso ha dichiararsi neutrali – equidistanti o ancora più ipocritamente “equivicini” – fra Israele e i suoi nemici? Lo Stato ebraico è un’oasi di democrazia (appena 20.000 km quadrati, la stessa superficie della Sicilia) circondata da un cordone di Stati totalitari, alcuni più moderati altri estremisti, ma tutti sicuramente non democratici. Come è possibile non tenerne conto?

Nella campagna elettorale del 2006 Francesco Rutelli, che aspirava agli esteri, ebbe a dire: se una cosa buona il governo Berlusconi ha fatto, è stata di avvicinare la politica estera italiana a Israele. Piero Fassino, che pure aspirava allo stesso ministero, per parte sua aveva posto il problema “due popoli, due democrazie” e non semplicemente “due Stati”. Di recente, lo stesso Veltroni ha dichiarato la sua simpatia per Israele. Già. Resta il fatto che il dicastero in questi due anni è stato occupato da D’Alema, colui che a pieno titolo può essere considerato il ministro degli esteri più filo-arabo dell’intera Unione europea. (Non che gli altri siano molto meglio; un po’ più ambigui semmai, o meno sfacciati). Ecco perché diventa urgente e necessario rilanciare con forza, in tempi politici e non come astratta petizione di principio, l’idea di Marco Pannella per l’ingresso di Israele nell’Unione Europea.

Questa proposta, certo da studiare nei tempi e nelle modalità di attuazione, aiuterebbe Israele a sentirsi meno sola, ma soprattutto consentirebbe all’Europa di riscoprire una parte di sé. Aprire le porte a Israele servirebbe all’Europa per ritrovare l’anima perduta, smarrita nei corridoi delle burocrazie di Bruxelles, e per ridare un senso alla sua missione di libertà e democrazia nel mondo. Questa ipotesi, a sua volta, porrebbe subito un altro interrogativo: la proposta, benefica per l’Europa, sarebbe altrettanto utile a garantire la sicurezza di Israele? Indubbiamente no, poiché il “nano politico e verme militare” ha dato negli anni infinite prove della sua riluttanza a impegnarsi in nuovi conflitti. A partire dal 1945 il dirty job lo hanno sempre dovuto fare gli americani. Per questa ragione, è necessario affiancare dall’inizio, alla proposta di inserire Israele nella Ue, quella di allargarne la partecipazione anche alla Nato.

Posto sotto l’imminente minaccia nucleare della teocrazia iraniana, lo Stato ebraico si trova oggi di fronte a una duplice, tremenda alternativa: o sferrare al più presto un attacco militare convenzionale, per impedire che l’Iran si munisca della bomba; oppure prepararsi a un attacco nucleare preventivo, un minuto prima che l’Iran, armato di bomba, arrivi a lanciarla. L’ipotesi che l’Iran possa avere la bomba atomica come elemento di equilibrio strategico, senza però usarla, non può e non deve neppure essere presa in considerazione, proprio perché il regime iraniano – per sua natura intrinseca - non può assolutamente essere considerato alla stregua di un qualsiasi altro membro della comunità internazionale. Di fronte alla sola Israele, i numerosi avversari potrebbero essere tentati di contrattaccare. Se invece l’intera Alleanza atlantica (composta, è bene ricordarlo, da 26 paesi tutti a regime democratico) alzasse il suo scudo protettivo in difesa di Israele, i nemici non potrebbero non tenerne conto. Questa pressione, assai più forte di quella risibile esercitata dall’Onu, potrebbe indurre i regimi di Teheran e di Damasco a più miti consigli, con conseguenze positive per il Libano e per i territori palestinesi. Il tutto prima di una guerra generale.

Anche questa scelta, inutile dirlo, richiede coraggio. Gli Stati Uniti, a volte sbagliando, ne hanno dimostrato. Viceversa l’Europa sembra prigioniera delle sue paure. La politica del quieto vivere si illude così di tenere lontane le bombe dei terroristi e la minaccia dell’integralismo islamico. E’ un film che abbiamo già visto. Di fronte alla esplicita minaccia mortale mossa contro Israele dall’islamo-fascismo, sembra di risentire – debitamente aggiornate - le parole di un celebre intellettuale francese alla vigilia della seconda guerra mondiale: “Morire per Gerusalemme? E perché mai?”.

E uno di Dimitri Buffa sul rapporto tra Israele e Onu:

Quest’anno a maggio non si celebrerà solamente il 60° anno dalla fondazione di Israele. Nello stesso periodo i cittadini dello Stato ebraico e gli ebrei di tutto il mondo, dovranno ricordare un ben più infausto anniversario: quello dell’inizio della guerra ideologica delle Nazioni Unite contro Israele. Già dal 5 marzo 1948, infatti, un paio di mesi prima che l’Onu approvasse la spartizione dell’ex mandato britannico sulla Palestina ottomana in due distinti Stati, per gli ebrei e per gli arabo-palestinesi (divisione mai accettata dagli stessi palestinesi e dagli stati arabi confinanti per ragioni di intolleranza religiosa vero gli ebrei) era stata varata la prima delle 290 risoluzioni Onu dedicate alla questione mediorientale. Una novantina delle quali di pura e semplice condanna unilaterale alle azioni di Israele per difendersi dal terrorismo. Terzomondista prima e islamico dagli anni ’80 in poi. La risoluzione Onu che porta il numero progressivo 42 e la data del 5 marzo 1948 si riporta alla precedente numero 181 del 1947 (quella che decisa la nascita dei due stati) e si propone genericamente di monitorare la “crescente violenza in Palestina e i problemi relativi alla sicurezza dei singoli”.

Una maniera eufemistica per denunciare episodi di intolleranza e omicidi contro gli ebrei, con tanto di teste tagliate e infilate in picche davanti alle case di persone di religione ebraica che vivevano ai confini con insediamenti di arabi. Omicidi a cui le forze organizzate dell’Haganà ebraica, futuro nucleo dell’esercito di Israele, avevano risposto con obbligata durezza. Da allora il Consiglio di sicurezza dell’Onu da una parte e la Comissione dei diritti umani dall’altra, sono diventati le palestre ideologiche in cui si è esercitato l’odio contro Israele. Saltando da allora ai giorni nostri la situazione non è mai cambiata: una media di quattro cinque condanne l’anno per 40 anni. Con un bel record negativo, nel passato biennio (la 62^ sessione dell’Assemblea Generale): ben 19 risoluzioni di condanna contro Israele. Mentre altre 15 risoluzioni di condanna sono state adottate dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu nei due anni in questione: il 2006 e il 2007. Spulciando tra le “curiosità” di questo interminabile elenco di proditorie condanne a Israele da parte dell’Onu, mentre il mondo conosceva una sessantina di conflitti cui spesso non veniva dedicato neanche un rigo, si trovano anche cose paradossali: ad esempio nel 1968, a cavallo con il ventesimo anniversario della nascita dello stato di Israele, dopo la Guerra dei sei giorni e la riconquista della Gerusalemme ebraica, si trovano ben due risoluzioni Onu, la 250 e la 251, rispettivamente emanate in data 27 aprile e 2 maggio 1968, la prima per stigmatizzare la preprazione di una parata militare a Gerusalemme, la seconda per condannare la stessa parata militare dopo che si era tenuta.

Un po’ come se l’Onu avesse condannato la repubblica italiana per la parata del 2 giugno a Roma, con la motivazione che la capitale fu sottratta allo Stato pontificio. Dal 2002 a oggi, la maggioranza delle risoluzioni Onu contro Israele riguardano la barriera antiterrorismo. Che gli anti-israeliani di professione preferiscono chiamare “muro”, per evocare la ben più sinistra costruzione di Berlino Est. Ebbene, mai una volta l’Onu ha dedicato una riga alle statistiche che testimoniano la riduzione di oltre il 90% degli attacchi suicidi di terroristi palestinesi nel territorio israeliano. In particolare si è passati dagli oltre mille morti innocenti del biennio 2000-2002, ai meno delle metà del biennio successivo. Morti che non imbracciavano kalashnikov o lancia-granate ma sedevano a una tavolino a prendere un caffè o si aggrappavano a una maniglia su un autobus di linea.

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