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L'Opinione Rassegna Stampa
06.02.2008 Terrore contro il processo di pace
analisi sull'attentato a Dimona

Testata: L'Opinione
Data: 06 febbraio 2008
Pagina: 0
Autore: Dimitri Buffa
Titolo: «Il terrorismo ignora il processo di pace»
Da L'OPINIONE del 6 febbraio 2008:

L’attentato del 4 febbraio a Dimona, in Israele, dove due kamikaze in un centro commerciale sono riusciti a uccidere una donna e a ferire altre undici persone facendosi esplodere in mezzo alla gente segna il 2008 come l’anno del ritorno del terrorismo islamico all’interno dello Stato ebraico. E come quello del tramonto di ogni speranza di fare la pace con i palestinesi, le cui maggiori organizzazioni armate hanno salutato anche ieri con boati di entusiasmo il luttuoso e omicida evento. E anche con i paesi arabi limitrofi ricominciano a soffiare i famigerati “venti di guerra”. Chi oggi, come Condoleeza Rice e altri un po’ ipocriti politici americani ed europei, si ostinasse a volere credere che il problema tra Israele e l’Anp verta su “territori in cambio di pace” farebbe la figura di colui che non ha capito un bel niente sul vero “quid” di tutta la situazione medio orientale. Che oggi come ieri verte solo sull’accettazione e sul riconoscimento del diritto di Israele a esistere, in quella precisa zona del Medio Oriente che gli arabi e soprattutto gli estremisti islamici continuano a credere come loro per diritto divino.

Si fosse trattato solo di cedere Gerusalemme Est al futuro Stato palestinese o a creare dei corridoi di passaggio tra Gaza e la Cisgiordania, o persino di trovare una soluzione per un risarcimento economico ai tre milioni di eredi dei profughi palestinesi del 1948 e del 1967, da tempo esisterebbe questo benedetto Stato che Arafat non volle e che anche i suoi successori dimostrano di non volere. Perché il punto della questione purtroppo è culturale ancora prima che religioso: i palestinesi stanno dimostrando di non volere veramente uno Stato palestinese, e di accontentarsi di distruggere quello ebraico. Inoltre esiste un problema, come già accadde per l’Ira nell’Irlanda del Nord e come sta accadendo per l’Eta in Spagna, che può riassumersi così: che faranno i terroristi dopo la pace? Che lavoro si troverà per loro? Sembra una cosa da poco, ma siccome il terrorismo è un business a sé stante, come il traffico di droga o di esseri umani, questo dettaglio impedisce accordi di pace un po’ in tutto il mondo: dalla Colombia alle prese con le Farc, al Messico che deve trovare una soluzione con l’esercito di Marcos, ai Paesi Baschi che devono fare i conti con i reduci dell’Eta fino a Gaza e alla Cisgiordania che devono inventarsi come riciclare i tanti miliziani di Fatah, Jihad islamica, Hamas e così via.

Il primo risultato del ritrovato entusiasmo terroristico di queste ultime formazioni, che lunedì hanno colpito inermi cittadini ebrei in un centro commerciale a circa un anno dall’ultimo attentato su suolo israeliano, è che ieri le autorità politiche e militari hanno dovuto alzare quasi al massimo grado l’allerta. Preparandosi a una futura probabile guerra sul territorio di Gaza. Migliaia di agenti di polizia sono stati dispiegati nei centri commerciali, nelle stazioni di autobus ed in altre zone affollate in tutto il territorio israeliano. Le forze dell’ordine hanno anche istituito posti di blocco all’ingresso delle città dopo che le autorità hanno deciso di elevare il grado di allarme nel paese, portandolo al livello C, il secondo più alto. E sempre ieri, tanto per gradire, altri due due razzi Qassam lanciati dalla parte settentrionale della Striscia di Gaza sono caduti nella zona industriale della città israeliana di Sderot, provocando danni materiali agli edifici di due aziende. Gli attacchi, si leggeva sul sito Internet del quotidiano ’Yedioth Ahronoth’, sono stati rivendicati dalle Brigate Salah a-Din, il braccio armato dei Comitati di resistenza popolare, e dalle Brigate Mujaheddin.

Per il portavoce dei Comitati di resistenza popolare, Abu Mujahid, gli attacchi sono la “risposta all’uccisione di Abu Sa’ad”, uno degli esponenti più importanti dell’organizzazione, fatto secco ieri dalle forze di sicurezza israeliane a Beit Lahiya, nella parte settentrionale della Striscia di Gaza. E anche per prevenire nuovi attacchi dalla Striscia, il ministero degli Esteri israeliano ieri si è detto favorevole al raddoppio dei militari egiziani dislocati alla frontiera con Gaza. Un aumento a cui il governo si era sempre opposto, appellandosi al trattato di pace di Camp di David e agli accordi sanciti con il Cairo dopo il disimpegno israeliano dell’estate del 2005 per il dislocamento di 750 agenti egiziani alla frontiera con Gaza.

Tzipi Livni presenterà il proprio piano particolareggiato proprio oggi. Certo sono in molti, oggi come oggi, a non fidarsi più dell’Egitto che in tutti questi due ultimi anni, ma anche prima, ha girato la testa dall’altra parte allorché le armi, la droga e il denaro entravano a Gaza attraverso i tunnel sotterranei scavati proprio a partire dal territorio egiziano. Vatti a fidare quindi ad avere quasi duemila soldati egiziani alla frontiera con Israele, pronti a intervenire non tanto contro i terroristi islamici, ma magari proprio contro i militari israeliani dall’altra parte della Striscia. E con questa atmosfera in cui soffiano sempre più insistentemente i cosiddetti venti di un nuova guerra, l’ennesima tra Israele e gli Stati arabi, l’unica certezza che si può avere è assai sconfortante: George W. Bush non vedrà la pace in Medio Oriente prima della fine del proprio mandato. Come invece continua a illudersi e a illudere la comunità internazionale.

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