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L'Opinione Rassegna Stampa
31.07.2007 Iraq: quale sarebbe il prezzo della resa ?
alcuni scenari possibili

Testata: L'Opinione
Data: 31 luglio 2007
Pagina: 0
Autore: Stefano Magni
Titolo: «Se gli americani lasciano l’Iraq»
Dall'OPINIONE  del 31 luglio 2007:

Il candidato Barack Obama, almeno, è stato sincero e ha detto quello che pensano molti suoi colleghi democratici: “Prevenire un genocidio in Iraq non è una buona ragione per mantenere laggiù le nostre truppe”. Della serie: se quando ce ne andremo ci sarà (e sicuramente ci sarà) un bagno di sangue in Iraq, non sarà più affar nostro. L’importante è non vedere più “i corpi dei nostri soldati tornare a casa avvolti nella bandiera” come ha dichiarato il candidato presidenziale democratico. Sorprendentemente la sinistra democratica e paladina dei diritti umani batte in cinismo la destra isolazionista. E non è la prima volta che la sinistra statunitense assume un atteggiamento di indifferenza assoluta nei confronti dei popoli ex alleati pur di far finire il prima possibile un intervento militare all’estero. Il caso più famoso ed eclatante fu l’abbandono del Vietnam del Sud nel 1975. Il presidente repubblicano Nixon aveva duramente colpito l’apparato militare nordvietnamita per riuscire a gestire un disimpegno onorevole nel 1973, lasciando sul campo un esercito sudvietnamita sostenuto dal deterrente americano.

Fu solo dopo lo scandalo Watergate, sotto la debole presidenza di transizione Ford e la conquista democratica del Congresso, che la sinistra americana decise di rompere ogni rapporto con l’ex alleato tagliandogli i fondi per l’anno fiscale 1975. Il 30 aprile di quell’anno Saigon cadeva nelle mani del regime comunista. Un mese dopo, sotto la spinta della marea rossa, anche Phnom Penh e tutta la Cambogia cadevano nelle mani dei Khmer Rossi. Mentre si discuteva se abbandonare o meno il Sud Est asiatico, il giovane democratico John Kerry dichiarava: “Non c’è alcuna certezza che vi sarà un bagno di sangue. Si possono solo fare congetture. Io penso che tutti gli elementi portino a credere che non vi sarà. Non c’è alcun interesse per il Vietnam del Nord a massacrare il popolo, una volta che ci saremo ritirati”. Pochi anni dopo che queste parole erano state pronunciate, nel Vietnam del Sud i comunisti iniziavano a deportare un milione di persone nei “campi di rieducazione”, mentre il regime di Pol Pot iniziava il suo sterminio di massa. Mezzo milione di Vietnamiti e due milioni e mezzo di Cambogiani furono assassinati in pochi anni.

Cosa ci si può attendere da una ritirata americana dall’Iraq? Alcuni analisti conservatori, come lo storico militare Victor Davis Hanson e Clifford May (presidente della Foundation for Defence of Democracies) provano a disegnare alcuni scenari possibili. Davis Hanson ipotizza il ritorno alla politica americana tradizionale nel Medio Oriente dopo la ritirata, una politica costituita “dallo ying dell’appeasement democratico e dallo yang del cinismo repubblicano”. Lo storico ricorda che il Medio Oriente è diventato la fonte dei nostri principali problemi dopo una serie di errori, tutti dello stesso tenore: Carter abbandonò lo Shah di Persia alla mercé della rivoluzione di Khomeini; Reagan ritirò le truppe dal Libano in seguito agli attentati di Beirut del 1983, permise al Pakistan e all’Arabia Saudita di allevare una generazione intera di combattenti islamisti per sconfiggere i Sovietici in Afghanistan e vendette armi al regime iraniano dei mullah per finanziare la guerriglia anti-comunista in Nicaragua; Bush padre mise in piedi una coalizione di regimi arabi anti-occidentali per sconfiggere Saddam Hussein e poi lasciò il dittatore iracheno al potere; Clinton non rispose mai efficacemente alla minaccia del crescente terrorismo di Al Qaeda e diede piena fiducia ad Arafat. Il risultato di queste politiche miopi è sotto gli occhi di tutti: seconda Intifadah, 11 settembre e minaccia di un’atomica islamica.

Solo l’attuale presidente Bush (e solo dopo l’11 settembre) ha per primo cercato di porre fine a una politica fondata sull’appeasement. Ma un’eventuale sconfitta della nuova strategia di Bush può lasciare le popolazioni locali di nuovo prive di un’alternativa democratica e ingrandire ulteriormente i ranghi dei nemici dell’Occidente, come è sempre avvenuto nei decenni scorsi. Clifford May entra più nel dettaglio nel descrivere uno scenario post-Iraq: incoraggiati dalla vittoria, i movimenti jihadisti possono tentare la scalata al potere in Cisgiordania, in Giordania, in Egitto, in Afghanistan, nel Bangladesh e in Pakistan, dove sono già molto forti e agguerriti. Allo stesso tempo, una volta privati di un’alleanza credibile con gli Stati Uniti, i regimi filo-occidentali locali dovrebbero scendere a patti con gli jihadisti per poter conservare il potere. L’Iran, dal canto suo, non incontrerebbe più ostacoli e potrebbe completare il suo programma nucleare. In caso di ritirata americana, insomma, non solo vi sarebbe un massacro delle popolazioni locali, ma tutto l’Occidente vedrebbe sorgere all’orizzonte tanti nuovi regimi nemici.

Se gli americani dovessero tenere duro in Iraq, la sconfitta sarebbe ugualmente inevitabile? Il generale John Keane, consigliere del Dipartimento della Difesa, dopo una sua recente ispezione sul campo, ha dichiarato che la situazione sta migliorando. Le milizie di Al Qaeda perdono sempre di più il sostegno della popolazione sunnita, le forze estremiste filo-iraniane sono progressivamente isolate dalla popolazione sciita. Aree come le province di Diyala, Al Anbar, Ninive, Saladin e Babil, che erano considerate “perdute”, ora sono relativamente sotto controllo. Una vittoria in Iraq è possibile nei prossimi anni. Basta che gli americani smettano di credere di avere già perso.

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