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L'Opinione Rassegna Stampa
20.02.2007 Attacco all'Iran ? Le prove che l'America lo stia preparando non ci sono
mentre la guerra del regime degli ayatollah a Israele e all'Occidente è già stata dichiarata

Testata: L'Opinione
Data: 20 febbraio 2007
Pagina: 0
Autore: Stefano Magni
Titolo: «Imperversa l’ipotesi “faziosa” di un attacco Usa all’Iran - Il Medioriente e la crisi di coscienza occidentale»
Da L'OPINIONE del 20 febbraio 2007:

Dopo il “Guardian”, anche secondo “Newsweek” gli Stati Uniti si starebbero preparando ad attaccare l’Iran. Il “Guardian” ipotizzava un attacco per la primavera in arrivo, oppure nella seconda metà del 2008. “Newsweek” non è così preciso nella previsione di un attacco, ma secondo l’inchiesta condotta da Michael Hirsh e Maziar Bahari, è quasi certo che Bush intenda attaccare il regime di mullah. Le prove dove sono? Secondo il “Guardian” il Pentagono avrebbe approntato piani per colpire gli impianti iraniani anche con testate nucleari tattiche. Lo affermerebbero anonime “fonti di intelligence”. E lo confermerebbero anche alcune manovre militari in preparazione: l’arrivo di una seconda portaerei nel Golfo Persico, lo spiegamento di batterie anti-missile Patriot nei Paesi del Golfo alleati degli Stati Uniti e accumulo di riserve di petrolio in vista di una crisi petrolifera. Nessuna di queste prove, tuttavia, costituisce una “pistola fumante”. L’arrivo di una seconda portaerei nel Golfo Persico, la “Stennis” non è stato anticipato, come prevedevano alcuni quotidiani. Nell’area del Golfo Persico/Mare Arabico opera attualmente una sola portaerei, la “Eisenhower”, attualmente dispiegata al largo delle coste somale. Se la “Stennis” (che attualmente naviga al largo di Guam, nel Pacifico) sarà dislocata nella stessa area operativa, impiegherà almeno due settimane per arrivarci.

Fino ad allora non sarà possibile condurre raid aerei contro l’Iran per 24 ore consecutive, cosa che espone fortemente le forze navali americane (e i Paesi confinanti) al rischio di una rappresaglia. E anche nel caso che arrivi una seconda portaerei nell’area di operazioni del Golfo, non è affatto detto che gli Americani intendano attaccare. In tempo di embargo e di “braccio di ferro” diplomatico è normale che gli Stati Uniti aumentino la forza navale presente nell’area. O almeno così fecero anche in tutte le crisi precedenti nel Golfo Persico. Altre misure citate dal “Guardian”, come l’accumulo di riserve petrolifere e il dispiegamento di batterie anti-missile nei Paesi del Golfo, sono interpretabili anche in un altro modo. Teheran annuncia da tempo che, per rispondere alle sanzioni, vi sarebbe stata una rappresaglia petrolifera, che (a seconda dei casi) può consistere semplicemente in una riduzione della produzione, ma arrivare anche alla chiusura dello stretto di Hormuz, per “Bloccare il 46% (sic!) del commercio petrolifero ed energetico mondiale” come afferma alla televisione iraniana un parlamentare membro della Commissione per la Sicurezza Nazionale. Comprensibile anche il previsto dispiegamento di batterie di Patriot nei Paesi arabi del Golfo Persico che ospitano le basi americane, nel momento in cui tutti questi Paesi sono già a tiro dei missili iraniani, non solo gli Shihab-3 (che possono colpire anche Israele), ma anche i meno potenti Scud B e Scud C (Shehab 1 e 2 nella designazione iraniana) che possono essere dotati di testate chimiche.

Restano da interpretare le “fonti anonime” che sia il Guardian che Newsweek citano. Saranno attendibili? Di sicuro sono molto vaghe: “È possibile “afferma un consigliere veterano della Coalizione che non era autorizzato a farsi registrare”; “Almeno un ex funzionario della Casa Bianca pensa che qualche consigliere di Bush intende segretamente trovare un pretesto per attaccare l’Iran”. Sono testimonianze utili? Lo storico Victor Davis Hanson, dalle colonne della National Review, deplora il metodo impiegato da Newsweek: “Uno studente di giornalismo prenderebbe un brutto voto in un articolo fatto di ‘qualcuno pensa’, poi chiarito da un ‘almeno uno’ e da preoccupazioni su cose che ‘alcuni’ consiglieri ‘segretamente’ vorrebbero”. Per di più, a rigor di logica si può ipotizzare proprio il contrario: gli Stati Uniti non attaccheranno l’Iran di sorpresa. E sarà ancor più difficile che lo facciano con armi nucleari (che gli Americani non usano da 62 anni) contro un Paese che è notoriamente protetto dalla Russia. Negli ultimi quindici anni gli Stati Uniti non hanno mai lanciato un attacco di sorpresa contro un altro Paese. In caso di un’offensiva aero-navale contro l’Iran occorrerebbe uno spiegamento di forze difficilmente occultabile.

Perché allora, l’ipotesi di un attacco americano all’Iran, occupa sempre tanto spazio nella stampa internazionale? Forse per motivi politici? Nell’inchiesta di Newsweek, leggiamo pareri del tipo: “La storia segreta della politica iraniana dell’amministrazione Bush è una storia di arroganza, sfiducia e fallimento”. Nello stesso articolo, leggiamo considerazioni ancor più esplicite come: “Powell, per primo, pensava che Bush fosse semplicemente impreparato a trattare con un regime che non voleva nemmeno fosse al potere”. La stessa stampa liberal, allo stesso tempo, trascura quel che si dice negli apparati di propaganda del regime di Teheran. Perché da quelle parti non ci sono “alcuni consiglieri che segretamente vorrebbero una scusa” per dichiarare guerra: ci sono esplicite e ripetute dichiarazioni di guerra contro Israele e contro l’Occidente: “Gli Hezbollah hanno distrutto la metà di Israele nella Guerra del Libano. Ora resta da distruggere l’altra metà” scrive il quotidiano di regime Kayhan. “La Grande Guerra è alle porte. Sarà domani, sarà fra qualche giorno, sarà fra qualche mese o anche fra qualche anno, ma Israele deve collassare” scrive l’altro quotidiano di regime Resalat. E alla fine di gennaio, in una trasmissione religiosa sull’Apocalisse e il ritorno del 12° Imam, la televisione di Stato iraniana annuncia: “Prepariamoci a veder confinata nei musei di storia la civiltà liberaldemocratica”.

Un articolo di Magni tratto da RAGIONPOLITICA sull'arretrare dei diritti umani in Medio Oriente e di Israele (nella guerra del Libano):

Due bombe sono scoppiate in un quartiere cristiano di Beirut. Un blogger liberale egiziano, noto come Karim al grande pubblico, è stato arrestato perché rifiutava di rinnegare la sua libertà di pensiero. In Iraq il governo di Al Maliki si è visto costretto a chiudere 10 quartieri della capitale, organizzando dei posti di blocco: ogni giorno muoiono decine di persone. In Palestina è stata concordata una tregua tra il presidente Abu Mazen e il governo di Hamas dopo un mese di guerra civile. In Marocco e in Giordania le riforme sono ferme. L'Iran rimane uno Stato-prigione. Il quadro del Medioriente, anche osservando solo l'ultima settimana, è ben poco edificante. Lo rileva anche la Freedom House, noto centro studi sulla libertà nel mondo. I rapporti sul Medioriente del 2004 e del 2005 indicavano un graduale miglioramento per la libertà dei popoli locali. Il 2006, al contrario, è stato un anno nero.

Cosa è successo? Gli Stati Uniti hanno rinunciato alla loro strategia di esportazione della democrazia e così le dittature mediorientali si sono di nuovo rafforzate. La svolta «realista» dell'amministrazione Bush è stata nociva per i popoli della regione. Ad affermarlo non è un organo di stampa neoconservatore americano, ma un quotidiano libanese, il Daily Star. Un editoriale di Thomas Melia, scritto all'indomani della semi-guerra civile tra Hezbollah e il governo Siniora, giunge alla conclusione che l'arretramento della libertà in tutto il Medioriente «accresce le difficoltà per i difensori della causa democratica nella regione, nel momento stesso in cui gli Stati Uniti paiono mutare la loro linea politica tornando ai metodi tradizionali. Questa realtà è esemplificata dalla visita di Condoleezza Rice al Cairo, in cui le preoccupazioni sul declino della libertà civile nel più grande e importante Paese arabo non è stata nemmeno espressa, per lo meno in pubblico». Le cause del mutamento di strategia sono molteplici: la continua e sanguinosa guerriglia in Iraq non accenna a finire; Israele non è riuscito a sconfiggere gli Hezbollah nel Libano meridionale; l'Iran sta completando il suo programma nucleare e può utilizzarlo per costruire (nel prossimo futuro) anche armi nucleari.

L'origine di questi rovesci è principalmente una: l'Iran. Il regime di Teheran alimenta la guerriglia in Iraq, appoggiando sia l'esercito del Mahdi di Al Sadr, sia (stando ai documenti sequestrati lo scorso 21 dicembre dalle forze della Coalizione) gruppi fondamentalisti islamici sunniti. Arma e controlla le milizie Hezbollah in Libano e ne suggerisce la linea politica: quando Hezbollah attaccò Israele nel luglio del 2006, lo fece con armi iraniane, anche molto sofisticate. Sempre il regime di Teheran finanzia il movimento di Hamas in Palestina, il peggior ostacolo al processo di pace. E infine il regime siriano, che nel 2005 era in crisi a causa della pressione internazionale seguita all'omicidio dell'ex premier libanese Hariri, nel 2006 ha ritrovato la sua forza proprio grazie all'alleanza con l'Iran, alla guerra di Hezbollah contro Israele e alla conseguente crisi interna libanese.

Ma c'è un'altra ragione del deterioramento delle condizioni nel Medioriente: la crisi di coscienza dell'Occidente. Se l'Iran ha mani libere in tutta la regione e può scatenare impunemente guerre di procura in Libano, in Iraq e in Palestina, lo si deve alla fine della fiducia occidentale nella propria strategia e nei propri valori. Sino ad ora, infatti, gli Stati Uniti hanno combattuto contro la guerriglia in Iraq con una mano legata dietro alla schiena. Per paura di perdite, d'accordo, ma anche e soprattutto perché non volevano mostrare la loro presenza alla popolazione irachena... per timore di offenderla. Lo constata l'analista Frederick Kagan, dell'American Enterprise Institute: la strategia americana è risultata perdente sinora perché consisteva nel mantenere le proprie forze in una posizione di riserva, così da responsabilizzare maggiormente il nuovo esercito iracheno e non apparire come forza occupante. Come se la presenza di forze americane nel Paese fosse considerata dagli americani stessi come una colpa: nessun esercito ha mai combattuto e vinto una guerra con una motivazione così bassa.

Quando Israele ha risposto all'attacco degli Hezbollah bombardando le sedi e le basi del Partito di Dio in tutto il Libano, la reazione di Washington non è stata un sostegno incondizionato alla legittima difesa israeliana (perché di legittima difesa si trattava, dopo aver subito un attacco a freddo sulla frontiera settentrionale), ma un invito a contenere la violenza della risposta militare. Il governo israeliano stesso è entrato in crisi: l'azione militare contro il Libano meridionale è stata intrapresa senza aver definito degli obiettivi precisi. Il ministro della Difesa, il pacifista Peretz, avrebbe voluto un'avanzata fino al fiume Litani, il premier Olmert era favorevole alla conquista di una fascia di sicurezza oltre il confine settentrionale profonda non più di 8 km. La guerra, iniziata solo con bombardamenti aerei e di artiglieria, si è sviluppata solo successivamente con limitate operazioni di terra, mentre un'azione decisiva (l'invio di truppe aviotrasportate sul fiume Litani) è iniziata solo gli ultimi tre giorni di guerra, quando già si stava negoziando una tregua: troppo tardi per ottenere buoni risultati. Anche in questo caso, la mancata vittoria israeliana (non si può parlare di vera e propria sconfitta) è dovuta ad una forte mancanza di autostima della classe dirigente israeliana più che a reali difficoltà militari. Il governo israeliano, investito da una protesta internazionale molto vigorosa, non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo, cioè fino alla sconfitta di Hezbollah. Si è accontentato di un risultato intermedio: giungere ad una situazione di stallo per far internazionalizzare la crisi, far intervenire la comunità internazionale, fare arrivare i Caschi Blu nella fascia di sicurezza tra Libano e Israele e ottenere un accordo sancito da una risoluzione dell'Onu (la risoluzione 1701).

La stessa indecisione caratterizza le contromisure nei confronti del programma nucleare dell'Iran, che è già in possesso di armi di distruzione di massa (chimiche e probabilmente anche batteriologiche), ha violato apertamente il Trattato di Non Proliferazione, non accetta di fermare il suo programma di arricchimento dell'uranio e si è dotato di missili (gli Shihab-3) in grado di colpire le città israeliane. La reazione è pressoché nulla: le sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza con la risuluzione 1737 non hanno impedito al regime di Teheran di iniziare l'installazione di 3000 centrifughe per l'arricchimento dell'uranio, con le quali potrà essere prodotta anche 1 testata nucleare all'anno a partire dall'anno prossimo. E nemmeno hanno impedito che la Russia vendesse nuovi missili anti-aerei all'Iran, a causa dei quali i reattori nucleari saranno molto più protetti da eventuali raid israeliani o americani. Anche in questo caso gli Stati Uniti non hanno mai dichiarato di voler usare la forza contro l'Iran e nemmeno hanno esercitato una maggior pressione militare. Eppure, nel 2003, solo quattro anni fa, Washington (la stessa amministrazione Bush jr.) fu disposta a entrare in conflitto con i suoi principali alleati pur di attaccare e rovesciare con urgenza il regime di Saddam Hussein, che pure costituiva una minaccia inferiore e meno immediata rispetto all'attuale regime dei mullah. Che cosa è cambiato negli ultimi quattro anni? Che cosa, se non un profondo calo di fiducia dell'amministrazione nei confronti delle proprie decisioni?

Per una volta possiamo ben dirlo: se i popoli mediorientali sono meno liberi è colpa nostra. Ma non nel senso che intendono i pacifisti: è colpa della nostra inedia, dovuta a una mancanza di autostima, al non credere nella forza dei nostri valori. In poche parole: non ci sentiamo all'altezza di dare lezioni agli altri. E ci stiamo di nuovo dimenticando del pericolo che corriamo, meno di sei anni dopo l'11 settembre. Per capirlo basta leggere un qualsiasi commento sulla guerra in Iraq: il ricordo dell'11 settembre è scomparso (o peggio: viene messo in dubbio che si tratti di un attacco islamista al cuore dell'Occidente), si trovano solo accuse contro la «guerra sbagliata» e la «follia» di chi vuole esportare la libertà e la democrazia. Andiamo avanti così, facciamoci del male.

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