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L'Opinione Rassegna Stampa
18.01.2007 È la storia che ci insegna come vincere il terrore
un paragone tra Iran e Giappone

Testata: L'Opinione
Data: 18 gennaio 2007
Pagina: 0
Autore: Stefano Magni
Titolo: «È la storia che ci insegna come vincere il terrore»
Da l'OPINIONE del 18 gennaio 2007:

Dopo Pearl Harbour, il 7 dicembre 1941, gli americani dichiararono guerra al Giappone e lo sconfissero definitivamente in tre anni e otto mesi. Da allora il Giappone non ha più costituito un problema per la sicurezza di nessuna nazione al mondo. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, la nuova Pearl Harbour dell’11 settembre 2001, gli americani stanno combattendo una lunga guerra che dura ormai da cinque anni e mezzo e non accenna ancora a finire. Perché? La risposta non è facile e non si può limitare alla sola analisi strategica. Nel libro “The Jihad Against the West, the Real Threat and the Right Response”, edito dall’Ayn Rand Institute, un articolo firmato dallo storico John Lewis tenta di fornire una risposta culturale. Il succo della sua tesi: gli Stati Uniti non hanno ancora vinto la guerra al terrorismo perché sinora non hanno voluto combatterla fino in fondo. E se non lo hanno voluto fare è solo perché la mentalità imperante nella società, nei media, tra gli intellettuali e tra i politici (anche tra i “guerrafondai” di destra) considera immorali i metodi di una strategia che punti alla distruzione decisiva del nemico. John Lewis considera che il problema islamico sia essenzialmente un problema di Stati islamici: “Il movimento totalitario islamico ha nel suo cuore lo stesso fuoco (del Giappone imperiale, ndr): una religiosità autoritaria e statalista, diffusa tramite un indottrinamento scolastico sostenuto dallo Stato, un culto che esalta il suicidio collettivo nel nome dello Stato e della religione e una speranza di combattere e vincere uno scontro finale con gli americani.

Il materiale da usare per spegnere questo fuoco, il minimo richiesto per porre fine alla spirale indottrinamento-jihad-attacchi suicidi, è lo stesso che fu impiegato contro il Giappone: spezzare il potere politico della religione”. Se il problema del radicalismo islamico ha al suo cuore lo Stato islamico perché gli americani non lo hanno affrontato direttamente? Nella guerra contro il totalitarismo, gli Stati Uniti non hanno colpito al cuore l’ideologia nemica e hanno combattuto sinora solo su fronti secondari. Non hanno dichiarato guerra all’Iran, lasciando che il regime di Teheran portasse avanti il suo programma nucleare: oggi il rischio di un’atomica islamica è più forte che mai. Hanno rovesciato il regime dei talebani, che offriva asilo ai terroristi di Al Qaeda, ma non hanno sradicato l’integralismo che ancora domina in molte regioni del Paese. Hanno rovesciato il regime di Saddam, ma sinora non hanno sconfitto i gruppi di radicali islamici che combattono per il controllo del territorio. Questa scelta strategica è, prima di tutto, culturale. I liberal, ma anche i neoconservatori, ritengono che la risposta militare debba essere necessariamente “proporzionale” all’offesa. L’etica su cui si basa questo principio è puramente altruista: la guerra è motivata dal bene altrui oltre che dalla necessità di difendersi.

La necessità di tutelare la vita e il benessere post-bellico della popolazione civile, anche di quella del Paese nemico, costringe l’esercito a rischiare maggiormente le vite dei propri soldati. Anche la guerra in Iraq del 2003, pur essendo condotta da un presidente di destra sostenuto da “falchi” neoconservatori, è stata combattuta secondo i criteri della “guerra giusta”: l’obiettivo era salvare e liberare il popolo iracheno dalla dittatura di Saddam Hussein, non sconfiggere l’Iraq. Tuttora, l’attuale piano di Bush per vincere la guerriglia in Iraq si fonda sullo stesso principio: rendere più sicura la vita dei cittadini iracheni con un maggior dispiegamento di forze. E un maggior rischio di subire perdite di vite americane. Il problema fondamentale della “guerra giusta” è: in che misura si deve limitare la propria forza? Chi lo decide? Purtroppo la risposta è sconcertante quanto inevitabile, se si accetta questa logica: decide il nemico. Spetta al nemico (a chi ha dato inizio all’aggressione) fissare le regole del gioco, perché la guerra è combattuta per il benessere futuro della sua popolazione. Se il regime nemico usa scudi umani nelle basi militari o trasforma città intere in caserme, sia le basi militari che le città diventano aree “off limits” per chi risponde all’aggressione, così come ponti, strade, centrali elettriche e pozzi petroliferi utili per la ricostruzione post-bellica. Nessuno ha mai vinto una guerra in modo decisivo con così tante restrizioni imposte (per volontà del nemico) alle proprie forze armate. La scelta della “guerra giusta” è motivata da un secondo grande problema culturale: non si prende nemmeno in considerazione di condannare e combattere l’ideologia del nemico.

La destra neoconservatrice ritiene che il problema sia limitato al regime nemico, rimosso il quale il resto del popolo può diventare amico degli Stati Uniti, perché tutti, in fondo, aderiscono agli stessi valori universali. La sinistra multiculturalista, con un ragionamento involontariamente simile, ritiene che l’ideologia islamista abbia pari dignità culturale rispetto alla nostra cultura della libertà, perché viene considerata come emanazione della loro particolare tradizione. Anche nella guerra combattuta in Iraq i soldati vengono addestrati ed istruiti per rispettare la cultura e le idee locali. Si pensa che basti dare libertà di voto per porre fine al pericolo. Se poi alle elezioni vince un integralista islamico? Le democrazie occidentali che stanno combattendo la guerra contro il totalitarismo islamico non sono culturalmente pronte a rispondere a questo problema. Un approccio morale di questo genere, incentrato sul benessere dei popoli altrui e non sulla propria difesa, impone di reagire in modi diversi ad ogni singolo attacco del nemico. Una risposta proporzionale implica uso della forza, trattative, compromessi, nation building e una vasta gamma di strumenti e strategie l’una diversa dall’altra, a volte contraddittorie tra loro. Diventa impossibile una strategia unitaria pianificata per vincere rapidamente un’unica guerra decisiva. E qui subentra un altro problema culturale: il pragmatismo. Un approccio pragmatico (condiviso da tutti i politici contemporanei, di destra e di sinistra, praticamente senza eccezione alcuna) impone di separare i problemi, spinge a considerare ogni caso come unico e irripetibile, impedisce di trarre lezioni dalla storia.

Sono soprattutto questi i motivi culturali che frenano gli Stati Uniti dal fare con l’Iran, origine e centro politico del totalitarismo islamico, quello che è stato fatto con i giapponesi: annientare le loro forze armate, distruggere il loro potenziale industriale, imporre una resa incondizionata, applicare una nuova legge e una nuova costituzione scritte dai vincitori, ricreare un nuovo sistema educativo che elimini qualsiasi incitamento alla guerra e alla violenza religiosa, controllare i media per lo stesso motivo, privatizzare le loro risorse naturali e frammentare i loro cartelli economici. E soprattutto: porre fine a qualsiasi sostegno statale alla loro religione, spezzando così qualsiasi legame tra Stato e religione. Tutto questo gli americani lo poterono fare nel 1945. Oggi, solo elencare e leggere queste misure fa venire i brividi a chiunque sia cresciuto nella nostra civiltà post-moderna, che è allo stesso tempo pragmatica e altruista. Forse è per questo motivo che, dall’11 settembre ad oggi, non vediamo ancora la fine della guerra.

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