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L'Opinione Rassegna Stampa
27.11.2006 Gli scudi umani di Hamas, il fallimento dell'"equivicinanza" e il futuro della Turchia
tre analisi sul Medio Oriente

Testata: L'Opinione
Data: 27 novembre 2006
Pagina: 1
Autore: Arturo Diaconale - Dimitri Buffa - Stefano Magni
Titolo: «Il problema degli imbecilli - I frutti amari della politica “equivicina” di D’Alema - Nazionalisti e Islamisti i Turchi che rifiutano l’Europa»
Da L'OPINIONE del 27 novembre 2006, un editoriale di Arturo Diaconale sul recente uso di scudi umani da parte dei terroristi palestinesi e sul modo in cui questa tattica (in realtà non nuova) è stata commentata in Italia:

Wael Barud è un capo militare dei Comitati di Resistenza Popolare che operano a Gaza e che si sono specializzati nel lancio di missili contro le città ed i villaggi israeliani vicini al confine. La sua attività è talmente intensa che è finito con l’entrare nel mirino dell’esercito israeliano. Che ha identificato la sua abitazione, ha verificato la sua presenza nell’appartamento ed ha incaricato l’aviazione di colpire con i suoi missili “intelligenti” sparati da aerei senza pilota. Come sempre avviene in questi casi, però, trenta minuti prima di avviare l’operazione che si sarebbe conclusa con la distruzione della casa di Barud e, presumibilmente, con l’eliminazione dell’esponente palestinese, un elicottero dello stato ebraico provvisto di altoparlante ha avvisato la popolazione dell’imminente attacco invitandola a sgomberare l’edificio e la zona scelti a bersaglio. In passato è sempre avvenuto che all’annuncio seguisse l’immediata evacuazione da parte dei civili. Nel caso di Barud, invece, i capi militari dei Comitati di Resistenza Popolare hanno sperimentato una nuova tattica difensiva. Invece di favorire lo sgombero dei civili per limitare le perdite tra la popolazione, sono stati mobilitati gruppi di donne che, portati di fronte alla casa dell’esponente palestinese, hanno fatto da “scudi umani” dell’abitazione costringendo l’aviazione israeliana a rinunciare all’attacco.

Questa tattica non costituisce una grande novità. La caratteristica principale dell’ultima Intifada lanciata dai palestinesi contro Israele è proprio quella di utilizzare donne e bambini come “scudi umani” dietro i quali i guerriglieri possono colpire e scomparire senza pericolo. Ma per la stampa itraliana, che oltre ad essere nella quasi totalità schierata contro lo stato ebraico è anche male informata, la presunta nuova tattica è stata salutata come una grande e geniale trovata. Non un solo giornale ha messo in luce che comportamenti del genere espongono i civili al rischio di stragi accidentali. Nessuno ha osato sottolineare come solo il senso di responsabilità dell’esercito israeliano ha evitato ed evita costantemente nuovi e più ampi massacri in Medio Oriente. Non una voce, infine, è spuntata, se non a condannare l’uso spregiudicato della popolazione da parte dei guerriglieri, almeno a sollevare il problema della legittimità o meno di tattiche militari in cui si trasformano i civili in cavalli di frisia o sacchetti di sabbia viventi. Tutti, al contrario, si sono rallegrati della trovata ingegnosa dei palestinesi. A conferma che gli israeliani hanno il problema dei palestinesi, noi italiani degli imbecilli.

Di Dimitri Buffa, un' analisi del fallimento della politica estera del governo Prodi:


Gli iraniani cantano vittoria su tutte le loro televisioni satellitari (oramai si credono superiori agli Stati Uniti), gli Hezbollah irridono il governo Siniora e l’Europa da Al Manar, Hamas fomenta la guerriglia a Gaza e non ha alcuna intenzione di riconoscere Israele, i gruppi no global in mezza Europa simpatizzano con il terrorismo islamico e bruciano nelle piazze le bandiere americane e israeliane, i pacifisti italiani vaneggiano di dialogo e si vanno a fare rapire nelle zone calde del Medio Oriente per poi chiedere allo stato di pagare il riscatto alle organizzazioni armate. Sei mesi di politica equivicina del ministro degli Esteri Massimo D’Alema hanno prodotto questi brillanti risultati. Che può condividere con i suoi eroici colleghi oltralpe. Questo è il cambio della politica italiana all’estero. Sancita anche dall’inopinata nomina a capo del Cesis, l’organismo burocratico che coordina gli altri due servizi di sicurezza con Palazzo Chigi, di un generale catto comunista e con spiccate simpatie per l’Iran. Il generale Giuseppe Cucchi è infatti l’uomo che un indimenticabile 8 febbraio 2006, in un irresistibile convegno geopolitico sponsorizzato da Nomisma (la ditta prodiana in cui è stato a libro paga per metà della propria esistenza), se ne uscì dicendo che “in fondo non sarebbe un male se l’atomica iraniana servisse a riequilibrare nel Medio Oriente quella già posseduta da Israele”.

Il problema però è che adesso i nodi stanno venendo al pettine: la missione dei soldati italiani in Libano a questo punto sta per diventare la cronaca di una tragedia annunciata. Se pure promettessimo a Nasrallah di disattendere completamente la risoluzione 1701 dell’Onu e dichiarassimo di trovarci in loco per disarmare Israele e non i terroristi islamici finanziati da Teheran, niente e nessuno potrebbe salvarci dal trovarci coinvolti nella guerra civile ormai in atto. E del resto già dichiarata domenica scorsa in un discorso di circa tre ore tenuto a cavallo dell’ora di pranzo dal temibile leader dei terroristi sciiti. Nasrallah infatti chiedeva le elezioni anticipate ben sapendo di poterle stravincere dopo l’esito politico della guerra di luglio. Siniora resiste perché sa che se consegnasse il governo del paese alle milizie sciite sarebbe inevitabile la guerra civile con i cristiani. Che qualche giorno fa hanno ricevuto il primo avvertimento armato sotto forma dell’ennesimo assassinio di un membro della famiglia Gemayel.

Vogliamo fare una previsione geopolitica e farci dare degli jettatori? Il prossimo obbiettivo del terrorismo siro iraniano non può che essere Walid Jumblatt. Come il padre di Hariri per troppo tempo ha tenuto il piede in due staffe, da una parte osteggiando l’hezbollah, dall’altra blandendolo con roboanti dichiarazioni anti israeliane. È uno dei tessitori del governo di coalizione che l’Iran vede come il fumo agli occhi visto che il progetto, sia pure non sbandierato, è quello di trasformare il Libano in una teocrazia islamica. O con elezioni, in arabo “intihabat”, o con il colpo di stato, in arabo inqilab”. Una formula della doppia opzione, che ricalca, rispettivamente, la presa del potere di Hitler e quella di Mussolini. Il problema di tanti analisti europei è che masticano poco l’arabo e si fidano troppo delle traduzioni in inglese che vengono fatte dei discorsi dei raiss locali. Altrimenti avrebbero potuto constatare domenica scorsa che Nasrallah in un punto del proprio discorso irrideva con sarcasmo alle esortazioni del vecchio continente che lo pregava di non mettere in crisi il governo Siniora, come in realtà invece ha fatto, ritirando i propri cinque ministri dall’esecutivo, tra essi anche quello che prese a braccetto D’Alema e che venne immortalato da una foto che è il simbolo stesso della politica estera italiana nel mondo attualmente.

Sapete che ha detto Nasrallah rispondendo all’Europa: “Se cade il governo si va alle elezioni e se non si va alle elezioni io manderò in piazza un milione di persone, d’altronde il fatto di avere ritirato la nostra delegazione non è mica oggetto del giudizio del tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità”. Ma mandare un milione di manifestanti in piazza, ben sostenuti da decine di migliaia di guerriglieri dal grilletto facile, è di per sé equivalente a fare un colpo di stato. E questo quelli come Prodi e D’Alema fingono di non capirlo.

Sulla Turchia e sul ruolo del nazionalismo nell'allontanare il paese dall'Europa e dall'Occidente, un'analisi di Stefano Magni:

Dove va la Turchia? L’opinione pubblica europea è spaventata soprattutto dalla crescita dell’Islamismo nella repubblica laica alle porte del Medio Oriente: “cosa ci fa in Europa una nazione con 70 milioni di musulmani?” si chiede l’uomo medio. Ma l’Islamismo in Turchia è ancora un sottobosco, le cui manifestazioni appaiono qua e là, in fatti della vita quotidiana e in alcune dichiarazioni avventate di uomini di governo. Ci sono sintomi di una forte islamizzazione della società e delle istituzioni, come l’uccisione di Don Andrea Santoro, la sparata del Direttorato degli Affari Religiosi di Ankara contro Benedetto XVI (“Lo si arresti appena arriva in Turchia”), la diffusione dei costumi musulmani anche nelle grandi città, i cori allo stadio che inneggiavano l’11 settembre, le ragazze di una scuola religiosa lasciate affogare perché la legge coranica vietava ai soccorritori maschi di soccorrerle. Ma forse non è l’Islamismo il vero pericolo per la Turchia. Non si sa quanto abbia fatto presa nella società civile, mentre è ancora del tutto assente nelle istituzioni pubbliche e anche nella stessa maggioranza dell’AKP (Partito della Giustizia e Sviluppo, di ispirazione islamica) che, in quattro anni di governo, non ha promosso nemmeno una sola norma religiosa.

Ciò che allontana la Turchia dall’Europa, semmai, oggi è il nazionalismo. I generali e i governi nazionalisti furono i primi ad avvicinare la Turchia all’Europa, ma oggi sono proprio loro ad opporre una forte resistenza alle condizioni di ingresso dettate da Bruxelles e dalle diplomazie europee. Lo scontro è su più livelli: autonomia del Curdistan, diritti umani, ammissione del genocidio degli Armeni sono i temi più scottanti. Il nazionalismo contemporaneo, d’altra parte, è diretto discendente dei Giovani Turchi, l’élite rivoluzionaria e laica che guidò l’Impero Ottomano per tutto il primo scorcio del XX secolo. Alleati con i Tedeschi, i Giovani Turchi combatterono contro le potenze occidentali e la Russia nella I Guerra Mondiale, una guerra che tuttora condiziona l’inconscio collettivo del popolo turco in senso anti-occidentale. E il governo dei Giovani Turchi fu anche quello dell’omogeneità etnica che fu alla base dello sterminio delle minoranze etniche: il genocidio degli Armeni nel 1915 (quasi 2 milioni di morti) e il tentato genocidio dei Greci nel 1917, interrotto solo dalla resa dell’Impero Ottomano.

Il fondatore dell’attuale Repubblica, Kemal Ataturk, nei primi anni ’20, non solo legittimò queste atrocità, ma le riprese. L’epurazione dei Greci, così come quella degli Armeni, ebbero forti connotazioni anti-cristiane. Di questi massacri, in Turchia, non si può scrivere. Lo vieta l’articolo 301, a protezione della “turchità” della Repubblica, una legge fondamentale dello Stato che il premier Erdogan intende riformare, non abrogare. Ma benché sia proibito parlare dei genocidi delle minoranze, la loro eco continua fino ai giorni nostri. Adesso sono soprattutto i nazionalisti che protestano contro la visita del Papa in Turchia, accusando i loro vecchi nemici perseguitati: il quotidiano Tercuman, per esempio, accusa il patriarca ortodosso Bartolomeo I di “voler fondare uno Stato nello Stato” in combutta con Benedetto XVI. Un po’ le stesse accuse che venivano mosse contro le comunità cristiane durante la I Guerra Mondiale, tacciate di cospirare assieme alle democrazie occidentali contro la Turchia. Si spera solo che sia passata tanta acqua sotto i ponti e che la storia non si ripeta.

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