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L'Opinione Rassegna Stampa
12.04.2006 Come (non) funziona il potere assoluto
la realtà del regime egiziano

Testata: L'Opinione
Data: 12 aprile 2006
Pagina: 0
Autore: Sefano Magni
Titolo: «L’eclisse dell’Egitto e i lifting di Mubarak»

Su L'OPINIONE di martedì 11 aprile 2006 Stefano Magni presenta un ritratto  regime egiziano, caratterizzato dall' inefficienza e dall'arbitrio prevaricatore delle autorità,  dalle menzogne propagandistiche, dagli sprechi e da tutti gli altri tipici viczi delle dittature.
Ecco il testo:


Una strada nuova di zecca, ben asfaltata, ben illuminata, decorata con un palmeto appena piantato, percorre la costa mediterranea egiziana fino a Salloum. E che cosa è Salloum? È ancora un piccolo villaggio di pescatori, case in fango e muratura, costruzioni abusive brulicanti di uomini e bestiame. Ma la strada c’è, fino alla sommità dell’altura: un pezzo di deserto in cui il 29 marzo scorso sono affluite migliaia di persone da tutto il mondo per assistere all’eclissi totale di sole. Per rendere l’idea della rarità del fenomeno naturale, basta dire che è l’ultima volta che un europeo la può vedere da un luogo relativamente vicino a casa sua nell’arco della sua esistenza. Il governo egiziano questo lo sapeva e ha costruito dal nulla una strada dove, fino all’anno prima, non c’era nulla. Ma, più che l’intraprendenza di un popolo abituato al turismo di massa, quel che si vede è un vero “villaggio Potemkin”: facciate di cartone, costruite per nascondere la miseria alle ispezioni dei potenti e dei loro ospiti. Dietro la strada, Salloum si dispiega in tutta la sua miseria: le strade in terra battuta, il traffico animale (carretti trainati da asini) più fitto di quello motorizzato, pescatori, coi loro volti arrostiti dal sole, il capo avvolto nei loro turbanti, paiono appena usciti dal Medioevo. C’era anche Mubarak ad assistere all’evento. E i suoi ritratti spuntavano per ogni dove, lungo la nuova strada e nel villaggio stesso. “Hanno fatto il lifting ai suoi ritratti e li hanno esposti solo per lui” – ci fa notare un egiziano – “quando arriva Mubarak, negli ospedali i malati guariscono, dal deserto spuntano le strade e la luce elettrica. Appena gira gli occhi le cose tornano come prima. Qui non c’era nulla fino all’anno scorso. Ci scommetto quel che vuoi che fra un anno qui tornerà tutto sotto la sabbia del deserto”. Mubarak è arrivato, accompagnato dal ministro della Difesa, a bordo di ben quattro elicotteri militari: due Hip di costruzione sovietica e due Black Hawk di costruzione americana, gli alleati del passato e quelli di adesso. Viene accolto da un picchetto d’onore, militari e auto blindatissime. La sua è un’autorità assoluta, inavvicinabile. E il suo ritratto campeggia ovunque, nelle piazze, nelle strade, al Cairo, così come ad Aswan, a Esmo, a Luxor. Appare in tutti i ruoli: in atteggiamento da statista, alla scrivania che redige lettere, da duro con gli occhiali raiban a specchio, assieme ai suoi collaboratori nei manifesti elettorali delle ultime elezioni che rimangono ancora affissi ai muri. È allo stesso tempo condottiero, statista, candidato, presidente. È l’uomo che ha guidato l’aviazione egiziana durante la guerra di ottobre del 1973, quella che tuttora viene festeggiata in Egitto come una vittoria. Sì, come una vittoria: quando si raggiunse l’accordo di pace (imposto dall’Onu per volontà soprattutto di Mosca), i carri armati di Sharon stavano avanzando sul Cairo e l’offensiva egiziana nel Sinai era stata fermata, ma nel cuore della capitale si può visitare il Ponte 6 Ottobre, c’è una Via 6 Ottobre e c’è persino una città che si chiama Six October City. “La vittoria nella guerra di ottobre contribuì a liberare il Sinai e a far tornare la pace”, questo è ciò che sostiene la storiografia di regime quando chiedi come mai il Sinai è stato restituito all’Egitto ben nove anni dopo la fine della guerra “vittoriosa”. Ma solo così, con la mitologia della vittoria, gli “eroi” possono permettersi di sonnecchiare sugli allori e parlare di pace. Ma basta la propaganda e la riscrittura della storia per fare un regime? Naturalmente no. La prima cosa che si nota, appena sbarcati all’Aeroporto internazionale del Cairo, è la presenza più che invadente dei militari. La tangenziale è costeggiata da caserme, postazioni fortificate, campi trincerati, manco si fosse sotto assedio. Di chek-point (o “chek-boint” come si legge spesso nei cartelli tradotti per stranieri) ce n’è più che nel confine tra Israele e Autorità Palestinese. Sono ovunque: sui ponti, nelle circonvallazioni, per le strade, in mezzo al deserto, all’ingresso di ogni singola città e cittadina. I siti turistici sono particolarmente blindati. Il regime vuole trattare bene i suoi ospiti. Sa che sono la sua risorsa principale e non può permettersi di vederli uccidere dai terroristi: dopo il massacro di Luxor, dopo le bombe a Taba e Sharm el Sheik, in Egitto si sono persi posti di lavoro e fior di miliardi. E così attorno alle piramidi di Giza ci sono ben tre barriere di check point: i militari della Polizia Turistica con tanto di elmetto e mitra, scrutano le strade da dietro una barriera mobile in acciaio. È così anche attorno ai negozi più frequentati dai turisti, al Museo Egizio, agli alberghi: un muro ben visibile fatto di sbarramenti, mitra e uomini in uniforme è steso tra il turista e il mondo esterno. È un muro che i visitatori occidentali possono attraversare quando vogliono. I locali un po’ meno. Ma, pur con tutta la loro buona volontà, i militari locali non riescono proprio a incutere timore. Siamo ben lontani dallo stereotipo del poliziotto sovietico che ti fulmina con lo sguardo se solo provi a tirar fuori la macchina fotografica nel posto sbagliato. Questi militari egiziani sono giovanissimi, sorseggiano il tè e chiacchierano tra di loro nei posti di blocco. Se vedono che sei un occidentale ti arrivano incontro scodinzolando, ostentano benevolenza e si fanno fotografare in cambio di mancette. Il militare lo fanno tutti: gli studenti universitari per un anno, i diplomati per un anno e mezzo, gli analfabeti per tre anni. Col risultato che l’Egitto ha un esercito di analfabeti. Quelli destinati alla protezione dei turisti sono i più fortunati, perché arrotondano lo stipendio con le mance, o addirittura possono sperare di avere una storia d’amore con turiste occidentali, come ci confida uno di loro. Gli altri guadagnano una miseria, ma almeno hanno vitto e alloggio assicurato da uno a tre anni. E così l’uniforme risulta una grande opera di beneficenza statale. Questo è il volto del regime. Un regime dove “tra la legge e la sua applicazione c’è un abisso”, come recita un detto popolare locale. Il caos, l’assenza di regole è visibilissima, anche solo viaggiando in auto per strada. Dove Mubarak non guarda, succede di tutto. Succede che la gente parcheggia sotto un passaggio a livello e mette pure un cuscino sul cofano per evitare che la sbarra lo rovini. Succede che la gente si picchia per salire su un vagone della metropolitana. Succede che se attraversi la strada rischi la pelle, perché non c’è semaforo che tenga e persino i vigili rischiano di essere investiti. La guida a destra o a sinistra è un concetto sconosciuto: ci si impone a colpi di clacson e acceleratore. Chi vive al Cairo da anni può confermare che tutta la società funziona così: a rapporti di forza. Gli uomini sono più forti delle donne, i burocrati più forti dei cittadini, i funzionari di Stato di alto rango più forti dei burocrati, ecc… Di solito, l’intuito suggerisce che la presenza della polizia e dei militari, è sinonimo di legge e ordine. I liberali insegnano che il vero caos si ha quando il potere politico è concentrato in poche mani, dove la legge è sostituita dall’arbitrio di chi governa. L’Egitto ci fa toccare con mano come (non) funziona il potere assoluto.

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