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Corriere della Sera Rassegna Stampa
14.11.2010 Il Burqa è uno strumento di tortura, non va sottovalutato
Senza la sua scomparsa non esiste alcuna libertà per le donne

Testata: Corriere della Sera
Data: 14 novembre 2010
Pagina: 41
Autore: Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Non è il burqa la prigione delle donne»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, a pag.41, con il titolo " Non è il burqa la prigione delle donne ", Cecilia Zecchinelli intervista May Akrani, definita 'una delle protagoniste della battaglia per il rispetto dei diritti umani in Afghanistan'. La sua attività sarà senz'altro meritevole, ci fa però un po' specie questa sottovalutazione di uno strumento di tortura, quand'anche soprattutto psicologica, del burqa. Dichiara che non esiste pace finchè non c'è istruzione, vero, ma il problema dell'Afghanistan non è soltanto raggiungere la pace, ma sconfiggere il terrorismo. La condizione della donna è un'arma importante da brandire contro i talebani. Sottovalutare il burqa aiuta questi ultimi, non le donne, e nemmeno la pace.
Ecco l'articolo:


Cecilia Zecchinelli,   Burqa, non è una prigione ?

Mary Akrami è una delle donne coraggiose dell’Afghanistan che hanno deciso di lottare per un Paese libero, pacifico e rispettoso dei diritti umani, schierandosi a fianco delle loro sorelle più deboli. Nel 1999, durante l’esilio in Pakistan ai tempi dei talebani, ha fondato l’attivissimo Centro per lo sviluppo delle capacità delle donne afghane (Awsdc). Con la sua Ong, tornata a Kabul, ha creato nel 2003 il primo rifugio per donne maltrattate, il Khana-e-Amn, la Casa della sicurezza. Da allora si divide tra la capitale afghana e il mondo: rappresentante della società civile afghana alla conferenza di Bonn nel 2001, testimone del «nuovo Afghanistan» nel 2005 al Social Forum in Brasile, insignita nel 2007 dal Dipartimento di Stato Usa del premio International Women of Courage. Venerdì, nel corso della conferenza Science for Peace di Milano, parteciperà all’incontro sulle donne nelle aree di conflitto con altre importanti attiviste, dal Premio Nobel iraniana Shirin Ebadi alla marocchina Aicha Ech Channa.

Nell’era dei talebani le «afghane prigioniere del burqa» erano diventate il simbolo del regime da abbattere. Poi l’Occidente si è focalizzato sulle donne ancora schiave delle tradizioni o sulle poche con ruoli pubblici. Cos’è cambiato davvero dopo il 2001?

«Fino al 2001 chiunque dissentisse dai talebani era di fatto un "prigioniero", anche gli uomini — sostiene Mary Akrami —. Ma le donne hanno sofferto di più. Molte si sono trovate sole e senza mezzi economici ma era loro vietato lavorare, guadagnare anche il poco necessario per sopravvivere. Il burqa non era il vero problema: è vero che spesso veniva loro imposto ma molte lo sceglievano perché si sentivano protette. E anche oggi tante afghane che lavorano e hanno posizioni importanti continuano ad indossarlo tranquillamente. I problemi sono ben altri». Ad esempio? «Molte sono ancora private dei diritti di base, come l’istruzione, la salute, l’apprendimento di una professione e quindi l’indipendenza economica. Ma è vero che dal 2001 si sono fatti passi enormi. Le donne siedono in Parlamento e nel governo, hanno più accesso all’istruzione, hanno costituito molte organizzazioni, gestiscono centri e Ong, sono inserite nel mondo dei media, sostengono legislazioni che rispettino i loro diritti, che fino ad oggi in Afghanistan erano ignorati da tutti. Le premesse ci sono ma resta molta strada da fare».

Quanto pesa oggi sulla società civile, e femminile in particolare, il deterioramento della sicurezza in Afghanistan?

«L’aumento delle vittime civili crea fortissimo allarme. Gli afghani avevano forse aspettative irrealistiche sul ritorno della pace ma la comunità internazionale ha comunque seguito strategie sbagliate. La percezione generale è che siano i giochi politici a prevalere Tutto quell’insistere sul burqa ad esempio è assurdo: se la comunità internazionale avesse mantenuto i suoi impegni, il fatto che alcune afghane continuino ad indossarlo svolgendo nello stesso tempo un ruolo chiave per lo sviluppo del Paese sarebbe irrilevante». Può parlarci del «rifugio»? «Quando l’abbiamo fondato nel 2003 è stato il primo luogo sicuro dove le donne potessero rifugiarsi. Da allora ne abbiamo ospitate 769, vittime di abusi e violenze terribili, e 740 lo hanno lasciato dopo aver risolto i loro problemi. Ne restano 27, e due — devo ammettere — sono state raggiunte e uccise dalle famiglie. Abbiamo però molti problemi di finanziamento: i fondi attuali dureranno solo sei mesi».

La conferenza Science for Peace sottolinea il ruolo della scienza, dell’istruzione e della cultura nel costruire un mondo di pace. Quanto vale per le donne?


a destra, Mary Akrami 
 

« I t a l e n t i mig l i o r i s o n o ovunque impegnati a costruire armi, se venissero usati in modo migliore il mondo sarebbe un paradiso. E la pace non esiste se non c’è istruzione, che insegna agli esseri umani ad amare la vita. Le donne hanno sempre avuto un ruolo importante in questo senso, le madri sono in fondo la prima "istituzione" educativa nella società. E nella storia dell’Afghanistan ci sono molti esempi della loro capacità di risolvere dispute e conflitti, riconosciuta anche dagli anziani delle tribù».

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lettere@corriere.it

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