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Il Mattino Rassegna Stampa
10.01.2005 Linguaggio ideologico, proclami poltici e sospetti infondati su Israele
sul quotidiano napoletano

Testata: Il Mattino
Data: 10 gennaio 2005
Pagina: 1
Autore: Francesco Romanetti
Titolo: «Occasione per due Abu Mazen alla prova, tra Sharon e la pace - I palestinesi scelgono l’erede di Arafat»
In prima pagina IL MATTINO del 9 gennaio 2005 pubblica un articolo di Francesco Romanetti intitolato "Occasione per due Abu Mazen alla prova, tra Sharon e la pace".
La morte di Arafat vi è definita "misteriosa" (suggerendo ancora l'ipotesi screditata dell'avvelenamento?), Hamas "integralista", senza cenni al terrorismo.
Le richieste dei palestinesi, "irrinunciabili". L'intifada, indipendentemente dai mezzi adoperati "azione di resistenza all’occupazione militare israeliana".
Sharon è sospettato di voler "offrire una caricatura di Stato, una sorta di riserva indiana sotto tutela".
Ecco l'articolo:

La sepoltura di Yasser Arafat, almeno quella politica, potrebbe avvenire oggi. È un giorno decisivo per le sorti della Palestina. A due mesi dalla morte, per certi versi ancora misteriosa, del leader carismatico che ha incarnato i destini di un intero popolo, un milione e ottecentomila palestinesi vanno alle urne per eleggerne il successore. Vincerà Abu Mazen, questo è certo: i sondaggi gli attribuiscono tra il 60 e il 65% dei consensi. Non c’è partita con gli altri sei candidati.
Tutto sommato si tratterà solo di valutare quanto consenso raccoglierà Mustafa Barghuti - un medico da anni impegnato sul terreno della difesa dei diritti umani, a capo di un movimento laico di sinistra - e se il suo progetto di erodere il monolitismo di Al Fatah (principale componente dell’Olp) potrà avere un futuro. Gli integralisti di Hamas, che nel test alle amministrative di dicembre sono risultati la seconda forza politica, sono (per ora) fuori gioco, avendo deciso di boicottare le elezioni. Sarà perciò indicativo il tasso di partecipazione al voto. Ma vincerà Abu Mazen. Vincerà il grigio Abu Mazen: mediatore ostinato, tessitore e artefice degli accordi di Oslo e della pace del ’93 tra Arafat e Rabin, ma marchiato come «moderato» e sospettato di piacere troppo a israeliani e americani. Nell’estate del 2003 dovette abbandonare la poltrona di primo ministro in seguito ad un dissidio insanabile con lo stesso Arafat sulla distribuzione dei poteri tra la leadership palestinese. In realtà il vecchio raìs non aveva mai digerito che il suo antico compagno di lotta gli fosse stato imposto come premier dall’accoppiata Sharon-Bush. Se ne liberò appena possibile, sostituendolo con Abu Ala. Non lo amano, si dice. I palestinesi non amano Abu Mazen, che in termini di carisma non può reggere neanche lontanamente il confronto con Yasser Arafat. Circolava una battuta quando l’anziano presidente era ancora vivo, assediato a Ramallah dai carri armati israeliani: «Senza Arafat - si ridacchiava - gli altri leader non sono in grado di ordinare neanche un caffé». Probabilmente era vero. Ma Arafat non c’è più. E dopo la sua morte, Al Fatah ha puntato proprio su Abu Mazen con il chiaro obiettivo di giocare la carta che potrebbe risultare vincente, soprattutto sul piano internazionale, per far ripartire il processo di pace. Ma chi è davvero Abu Mazen? Giacca e cravatta, occhiali e baffetti da ragioniere del catasto, durante la campagna elettorale, s’è mostrato con la kefiah (il tradizionale copricapo palestinese eternamente indossato da Arafat), avvolta sulle spalle. Nei comizi, quasi a sorpresa, ha usato parole infuocate, giungendo a definire Israele - dopo l’uccisione di otto ragazzi palestinesi - «il nemico sionista», espressione da anni scomparsa dal vocabolario dell’Olp. Ha abbracciato i militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, ha chiesto la scarcerazione dei settemila detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, ha giurato che lo Stato di Palestina nascerà con capitale Gerusalemme. Ma ha anche compiuto un passo decisivo che Arafat non aveva fatto (e forse non aveva potuto fare) fino in fondo: ha condannato senza mezzi termini la lotta armata. L’Intifada, intesa come azione di resistenza all’occupazione militare israeliana, non è rinnegata: ma dovrà svolgersi esclusivamente con mezzi pacifici. Una svolta che gli è costata l’accusa, da parte dei gruppi combattenti, di aver «accoltellato alla schiena» la resistenza palestinese. La vera «arma» di Abu Mazen, tuttavia, potrebbe essere proprio questa. A ben vedere la sua inversione di rotta riguarda i mezzi, non i fini. Se quel che ha detto davanti alla folla che lo acclamava, Abu Mazen lo pensa davvero, con la sua presidenza non ci sarà nessuna calata di braghe: tutti i punti contenuti negli accordi di Oslo sono riproposti, tutte le storiche e irrinunciabili rivendicazioni dei palestinesi restano in piedi. Abu Mazen chiede di ripartire dalla «Road Map», il percorso di pace approvato a livello internazionale e poi interrotto. Da questo punto di vista, Abu Mazen potrebbe snidare il «falco» Sharon. Se Arafat era l’ostacolo che veniva indicato, ora non ci sono più alibi. Dunque chi davvero è Abu Mazen - l’«accoltellatore alla schiena della resistenza»? il «burattino» di americani e israeliani? - finiranno per mostrarlo proprio Sharon e l’amministrazione Usa, in questi anni appiattita sulle posizioni della destra israeliana. Non ci vorrà molto a capire se quello che verrà proposto ai palestinesi sarà un futuro di pace vera, basato sul diritto e sulla dignità. O piuttosto se Sharon ritenga che con Abu Mazen al potere possa offrire una caricatura di Stato, una sorta di riserva indiana sotto tutela.
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