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Libero Rassegna Stampa
30.11.2024 Churchill, l’uomo che insegnò al suo popolo la vittoria
Commento di Fausto Carioti

Testata: Libero
Data: 30 novembre 2024
Pagina: 26
Autore: Fausto Carioti
Titolo: «L'uomo che insegnò al suo popolo la vittoria»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 30/11/2024, a pag. 26 il commento di Fausto Carioti dal titolo “L'uomo che insegnò al suo popolo la vittoria”


Fausto Carioti

Winston Churchill, a 150 anni dalla nascita, può ancora darci lezioni di leadership. Perché è l'uomo che, da solo contro il nazismo, ha insegnato al suo popolo a vincere, anche in circostanze disperate.

Per capire cosa è Winston Churchill nella cultura di massa, e cioè un mito moderno e conservatore che solo gli inglesi possono avere e altrove sarebbe un ossimoro, gli Iron Maiden sono un buon punto di partenza. Immaginate questa band britannica di heavy metal, chitarre e batteria potenti e un cantante, Bruce Dickinson, con la voce da tenore, in una di quelle liturgie che sono i grandi concerti rock. Immaginateli l’11 gennaio del 1985 in mezzo a quel tempio pagano che è il Maracanã di Rio de Janeiro, affollato al doppio della sua immensa capienza, sino a contenerne 300mila. O al centro dell’Estadio River Plate di Buenos Aires il 27 settembre del 2019, in 65mila sugli spalti con le braccia alzate. La scintilla da cui divampa l’incendio, la prima voce che sentono quelle folle, non è di Dickinson. Appartiene a un uomo politico nato esattamente centocinquant’anni fa, il 30 novembre 1874, e morto nel 1965.
È la registrazione gracchiante delle parole che Churchill pronunciò alla Camera dei Comuni il 4 giugno 1940, quando la ritirata degli alleati dalla spiaggia di Dunkerque si era appena conclusa. Il discorso che trovava in una sconfitta, e quando già si sapeva che i tedeschi avrebbero bombardato l’Inghilterra, le ragioni della speranza: «We shall go on to the end. We shall fight in France, we shall fight on the seas and oceans, we shall fight with growing confidence and growing strength in the air, we shall defend our Island, whatever the cost maybe... We shall never surrender». Combatteremo ovunque, difenderemo la nostra isola qualunque sia il prezzo da pagare. Solo a questo punto la voce di Dickinson può intonare Aces High, celebrazione dei piloti della Raf che combatterono la battaglia d’Inghilterra.

FIRMATO DIAZ

L’alto e il basso che si uniscono, il senso delle istituzioni e il sentimento di popolo che, giunti al bivio della Storia, si identificano nello stesso leader, senza divisioni. Nulla di simile ha avuto l’Italia. Bisogna andare indietro al 4 novembre del 1918, al Bollettino della vittoria firmato da Armando Diaz: «I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». Gli italiani analfabeti battezzarono i loro figli “Firmato”, convinti che fosse il nome del generale, e anni dopo i genitori del futuro leader dei Beatles avrebbero registrato il suo nome come John Winston Lennon: nato in un ospedale di Liverpool il 9 ottobre del 1940, durante un bombardamento tedesco. Qui nessuno, però, ha mai fatto sentire le parole di Diaz in uno stadio.
Eppure, quando il 65enne Churchill arrivò al potere, seconda scelta dire Giorgio VI, che gli avrebbe preferito lord Halifax, tutto andava nella direzione opposta, la più comoda: l’appeasement col dittatore nazista. L’impero inglese non aveva alleati possibili, l’Unione sovietica aveva firmato il patto Molotov-Ribbentrop e l’intervento in guerra degli Stati Uniti era un sogno. Spingevano per negoziare con Berlino gli altri leader dei Tory, a partire dallo stesso Halifax, e quotidiani come il Times e il Daily Mail.
Churchill disse no a tutti non per idealismo, ma perché sapeva che «sangue, fatica, lacrime e sudore», le uniche cose che poteva garantire ai suoi connazionali, erano migliori dell’alternativa. Accettare l’offerta recapitata da Hitler tramite gli ambasciatori di Mussolini avrebbe significato smembrare l’impero inglese e cedere la flotta. «Diventeremmo uno Stato schiavo, verrebbe istituito un governo britannico che sarebbe il burattino di Hitler», disse nel gabinetto di guerra in cui convinse i suoi ministri a seguirlo sulla strada più difficile. Un anno dopo si contavano trentamila inglesi, uomini, donne e bambini, uccisi dai tedeschi: il prezzo da pagare per la convinzione di uno.
Churchill era le sue parole, un Marco Antonio di Shakespeare. Aveva iniziato a preoccuparsi di Stalin ben prima che Hitler fosse rimosso dalla scena, e a guerra finita poté dedicare le sue preoccupazioni e la sua oratoria al dittatore georgiano. Solo nel 1998 è emerso che nel maggio del ’45 aveva chiesto ai suoi uffici di pianificare quella che lui stesso chiamò «Operation Unthinkable», l’operazione impensabile: cacciare i sovietici dall’Europa orientale, britannici e statunitensi insieme, impiegando uomini e armi della Wehrmacht de-nazificata.

LA CORTINA DI FERRO

Impensabile anche per gli americani, e questo chiuse ogni possibilità d’intervento militare. Non politico, però. Il 5 marzo del 1946 Churchill, diventato leader dell’opposizione, era a Fulton, nel Missouri, accanto al presidente americano Harry S. Truman.
L’espressione «Cortina di ferro» nacque quel giorno, dalle sue parole: «Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro è calata sul continente».
E ancora una volta dovette subire il fuoco amico: persino il Wall Street Journal scrisse che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto imbarcarsi un’alleanza anti-sovietica, e Truman fu costretto a negare di essere a conoscenza di ciò che avrebbe detto Churchill.
Un anno dopo gli avrebbe dato ragione su tutto: gli Stati Uniti avrebbero sostenuto i Paesi liberi minacciati dall’espansione sovietica, iniziava la strategia del «contenimento».
Da perfetto conservatore, coltivava l’ironia e sapeva essere cinico. Certe sue battute – anche apocrife – sono diventate leggenda. Come quella con cui avrebbe liquidato la parlamentare socialista Bessie Braddock, che lo aveva accusato di essere ubriaco: «Però io domattina sarò sobrio, lei invece sarà ancora brutta», sarebbe stata – più o meno – la sua risposta.
Nella biografia che gli ha dedicato, Boris Johnson spiega che Churchill «è il miglior testimonial al mondo per i benefici dell’alcol», e questo spiega perché «circa venti pub in Gran Bretagna portano il suo nome e la sua faccia da bulldog». Ma aggiunge che Churchill è anche, soprattutto, la risposta «a tutti gli storici marxisti che pensano che la Storia sia il racconto di forze economiche vaste e impersonali. Un solo uomo può fare tutta la differenza».

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