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Libero Rassegna Stampa
10.06.2024 Quando l’informazione si schiera coi terroristi, il carceriere di Hamas lavorava per Al Jazeera
Commento di Marco Patricelli

Testata: Libero
Data: 10 giugno 2024
Pagina: 19
Autore: Marco Patricelli
Titolo: «Uno dei carcerieri di Hamas lavorava per Al Jazeera»

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 10/06/2024, a pag. 19 con il titolo "Uno dei carcerieri di Hamas lavorava per Al Jazeera", il commento di Marco Patricelli.

Marco Patricelli
Marco Patricelli

Abdullah Al Jamal, il carceriere di Noa Argamani era anche un giornalista e aveva lavorato per Al Jazeera. Ulteriore dimostrazione che fra giornalismo e terrorismo, a Gaza, c'è un rapporto stretto. Raramente Al Jazeera è stata trattata come avrebbe meritato. Veniva vista anche da molti incoscenti che la giudicavano bene, come fosse buona informazione.

Era un giornalista palestinese collaboratore anche della tv del Qatar Al Jazeera il carceriere di Noa Argamani, una degli ostaggi liberati sabato dal raid di forze speciali israeliane. Abdullah Al Jamal, 36 anni, oltre che per Al Jazeera scriveva anche corrispondenze da Gaza per The Palestine Cronicle, testata con sede negli Stati Uniti. Dal canto suo, Al Jazeera ha negato: Al Jamal, dice, « non risulta abbia lavorato per Al Jazeera né ora né in passato».
La famiglia di Al Jamal era probabilmente, come altre di Gaza, pagata da Hamas proprio per detenere gli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre 2023. In casa vivevano anche il padre di Abdullah, il fisico Ahmed Al Jamal, di 74 anni, la moglie del reporter, Fatima, 36 anni, e la sorella Zeinab, 27 anni. Nell'irruzione sul filo dei secondi, quando ogni sagoma può essere un nemico mortale, i commandos israeliani hanno ucciso prima Fatima, incrociata sulle scale; poi, entrati in casa, hanno freddato Abdullah e il padre Ahmed, mentre Zeinab è stata ferita.
Sono solo alcuni dei nuovi dettagli emersi sull’azione che ha liberato quattro ostaggi israeliani due giorni fa. Raid che verrà intitolato all'ispettore capo Arnon Zamora, unico caduto israeliano. Lo ha annunciato lo stesso premier Netanyahu: «Come il governo di Yitzhak Rabin intitolò l’azione dl 1976 per la liberazione degli ostaggi a Entebbe, in Uganda, “Operazione Yonatan”, dal nome del comandante caduto in battaglia (si trattava del fratellomaggiore di Netanyahu, ndr), anche il nostro governo sosterrà la proposta d'intitolare l’operazione a Gaza “Operazione Arnon”».
Tornando al blitz, emergono particolari davvero impressionanti. Anche se il via libera governativo è datato alla sera di giovedì 6 giugno, l’azione è stata progettata con settimane d'anticipo, durante le quali i commandos del servizio di sicurezza Shin Bet e del nucleo antiterrorismo Yamam della polizia confinaria Magav si sono addestrati nel deserto, lontano da occhi indiscreti. Ore, giorni ad allenarsi alla penetrazione negli edifici di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza, in cui erano prigionieri Noa Argamani, Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv. Da indiscrezioni di ufficiali, «i militari hanno studiato varie modalità di estrazione simili al raid di Entebbe». Ancora Entebbe, a fare scuola, dopo 48 anni!
Al lavoro di intelligence hanno partecipato gli americani.
Ieri il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan ha ammesso: «Non abbiamo partecipato militarmente, ma fornito intelligence». Washington ha negato un ruolo del molo che i genieri dell'Us Army hanno posato sulla costa di Gaza per le navi umanitarie.
Ma proprio da lì sabato si sono mossi gli agenti israeliani, camuffati da profughi, su almeno un'auto e un furgone verso Nuseirat.
Prima ci si deve accertare di dove siano gli ostaggi. Lo Shin Bet sfrutta forse agenti palestinesi, che non mancano, considerato il dissenso di parte della gente verso Hamas. Anche agenti arabo-israeliani possono mimetizzarsi nella Striscia per sembianze e lingua. L’occhio umano sul terreno vede indizi che sfuggono a droni e satelliti. Giovedì si è sicuri che Noa è in casa del giornalista di Al Jazeera. I tre ostaggi maschi sono in un'abitazione a 200 metri di distanza. Entrambi gli appartamenti stanno in condomini a più piani. La planimetria di edifici e vicoli viene memorizzata, metro per metro, dagli incursori. Che ripetono fino all'ossessione le manovre preparate nel deserto.
Sabato alle 11 locali, le 10 in Italia, dall'area presso il molo americano arrivano a Nuseirat un’auto bianca con materassi sul tetto e un finto camion per aiuti umanitari. A bordo i commandos, fra cui varie donne, che si spacciano per profughi venuti da Rafah.
È una mattina di mercato, le vie sono affollate di bancarelle, donne, vecchi e bambini. I militi dello Shin Bet e dello Yamam, irriconoscibili sotto kefiah e abiti da sfollati, adocchiano i due palazzi. Sincronizzano gli orologi e vi irrompono nello stesso momento.
Un minuto di differenza e l'allarme spingerebbe uno dei due gruppi di carcerieri a vendicarsi sui propri ostaggi.
Noa è salvata subito. Nell'altra casa la lotta si prolunga. Alle 11.15 il secondo gruppo comunica in codice: «I diamanti sono nelle nostre mani». Ma i miliziani si fanno sotto. Un proiettile ferisce l’ispettore Zamora, che si accascia. I compagni lo sollevano e lo caricano, insieme ai tre ostaggi maschi, sul furgone, guidato da una donna. Ma il furgone si ferma: sono circondati. Entrano in lizza Esercito, Marina e Aeronautica con armi pesanti, è in questa fase che cadono molti palestinesi. Il furgone riparte, nucleo militare e ostaggi vengono esfiltrati fino alla piazzola con l’elicottero pronto al decollo per Israele, ma Zamora muore.
Hamas ha aggiornato ieri a 276 morti, in gran parte civili, il suo bilancio, ma Israele parla di «meno di 100 vittime».
Hamas sostiene poi che «nell'operazione sono morti anche tre ostaggi, di cui uno cittadino statunitense».

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