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Libero Rassegna Stampa
21.03.2024 Via i soldi alle università anti Israele
Commento di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 21 marzo 2024
Pagina: 13
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «Via i soldi alle università che mettono il bavaglio»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 21/03/2024, a pag. 13, con il titolo "Via i soldi alle università che mettono il bavaglio", il commento di Daniele Capezzone.

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

La Sapienza occupata. Non è la sola, ma una delle tante università in agitazione permanente. Il caso dell'Università di Torino che boicotta Israele facendosi dettare la linea dai collettivi studenteschi realizza i nostri peggiori presagi. C'è un unico modo di reagire: via i soldi alle università che censurano i relatori e boicottano Israele, come hanno fatto in Florida

Si sa, in Italia essere buoni profeti è fin troppo facile: spesso, infatti, per azzeccare il pronostico, è sufficiente prevedere il peggio.
Così, pochissimi giorni fa, su Libero, avevamo anticipato la frontiera ulteriore della crescente onda antisemita (da alcuni ancora eufemisticamente definita antisionista): la messa in discussione perfino degli accordi accademici tra università italiane e atenei israeliani.
Per sua natura, un boicottaggio di questo tipo porta con sé un connotato intrinsecamente ostile: un’università non può mai essere confusa con l’esercito di Israele o con il governo che è oggi pro tempore al potere a Gerusalemme.
Dunque, recidere perfino rapporti scientifici e di ricerca implica una precisa volontà discriminatoria.
E puntualmente- secondo i nostri peggiori presagi- si è verificato l’episodio di Torino. Non solo il senato accademico dell’università ha decretato lo stop agli accordi con Israele scegliendo di non partecipare al relativo bando, ma la decisione è stata assunta in un clima surreale, con tanto di irruzione degli studenti pro Palestina (armati di bandiere e striscioni) in piena riunione dell’organismo dell’ateneo. I docenti - non sapremmo dire se intimiditi o culturalmente omogenei rispetto ai cori dei manifestanti - avrebbero ascoltato e poi, secondo quanto riferiscono le cronache, avrebbero risposto: «Riceviamo il documento e ne discuteremo al momento opportuno». Neanche per idea: i manifestanti hanno chiesto di «essere partecipi della decisione», e i professori - spalle al muro - hanno di fatto obbedito.
Il senso della giornata lo rende il racconto dei militanti dell’organizzazione di ultrasinistra “Cambiare Rotta”: «La protesta ha conquistato il confronto pubblico in aula magna tra la comunità studentesca e il senato accademico ottenendo il blocco della partecipazione dell’Università di Torino al bando Maeci 2024». E, dopo la rivendicazione, occhio al linguaggio utilizzato: «Una vittoria importante che proveremo ad ottenere anche negli altri atenei del Paese per smontare pezzo a pezzo la complicità delle università italiane con l’entità sionista». Avete letto bene: «entità sionista», un po’ come si esprimerebbero a Teheran. Ieri ha fatto benissimo Giorgia Meloni a manifestare amarezza e disappunto per questa vicenda: «Considero preoccupante», ha detto «che il Senato accademico dell’Università di Torino scelga di non partecipare al bando per la cooperazione scientifica con Israele. E lo faccia dopo un’occupazione da parte dei collettivi. Se le istituzioni si piegano a questi metodi rischiamo di avere molti problemi».
Ecco, forse è venuto il momento di compiere un passo in più, che potrebbe valere in tutti i casi in cui una istituzione pubblica (in questo caso, un’università) discrimini, oppure accetti atti di censura.

L’ESEMPIO AMERICANO

In alcuni stati americani a guida repubblicana (in Florida, ad esempio), sono stati tolti i finanziamenti ai programmi orientati in un certo senso, come quelli ad alta ideologizzazione woke. Iniziativa condivisibile, per molti versi: che però può dare implicitamente l’idea di voler spingere in futuro su programmi diversamente orientati. Il rischio - in prospettiva - è quello di trasmettere la sensazione che si stia solo rovesciando il segno di un intervento comunque invasivo da parte della politica. Come dire: se vincono i democratici, si spinge in un senso; se invece vincono i repubblicani, si spinge in senso diverso. Si tratterebbe - invece - di smettere di spingere. Di togliere l’intromissione ideologica, non di sostituirla. E il primo passo - rigorosissimo quanto di limpida impronta liberale classica, dunque inattaccabile - sarebbe quello di ritirare i finanziamenti pubblici a qualunque luogo o istituzione universitaria o educativa dove siano avvenute forme di censura, dove si siano registrati atti di discriminazione su base politico-ideologica (il caso di Torino, per capirci), dove sia stato praticato il no platforming o il de-platforming (cioè dove siano stati cacciati dei relatori o impedite delle conferenze).
Una ricetta dura? Certamente.
Ma chiarissima e semplice, direi inequivoca. Sei un’università? Sei una scuola pubblica? Ricevi il denaro dei contribuenti? Se però ti sei reso protagonista di un comportamento censorio, se lo hai accettato o addirittura promosso, non potrai ricevere i soldi dei taxpayers. Si dirà che è una soluzione provocatoria: in qualche misura lo è, ma non nel significato deteriore dell’aggettivo. Semmai, è provocatoria nel senso che vuole provocare una presa di coscienza e una svolta.

ARIA ALLE STANZE

Mettiamola così. L’ala sinistra della politica americana ha coniato negli ultimi anni uno slogan orrendo, che ha prodotto guai inenarrabili: defund police. Cioè, alla lettera, definanziare la polizia, spostare risorse destinate alle forze dell’ordine e indirizzarle altrove.
Tragico errore, che ha delegittimato la polizia, aumentando la propensione al disordine e all’insicurezza.Noi dovremmo invece- lontano da ogni estremismo illiberale - realizzare un sano defund censors: togliere i fondi ai censori, agli imbavagliatori, a chi vuole precludere una discussione libera e aperta.
E ciò anticipa e qualifica la missione a cui la destra liberalconservatrice è chiamata in questa fase storica: dare aria alla stanza, aprire porte, spalancare finestre. Garantire libertà nella e della cultura, prim’ancora che promuovere uno specifico orientamento culturale.
In tutto il mondo (a partire dai disastri in corso nelle università americane e britanniche), i conservatori e i liberali sono stati eccessivamente remissivi e timidi, e in ultima analisi hanno perso troppi round in questo match decisivo. È il momento di andare all’offensiva nella direzione della libertà, e non solo di giocare in difesa: e sarebbe molto bello se un segnale di riscossa – in controtendenza – venisse dall’Italia.

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