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Libero Rassegna Stampa
27.01.2024 A non volere i due Stati sono proprio gli arabi
Analisi di Claudia Osmetti

Testata: Libero
Data: 27 gennaio 2024
Pagina: 4
Autore: Claudia Osmetti
Titolo: «A non volere due Stati sono proprio gli arabi»
Riprendiamo da LIBERO del 27/01/2024, a pag. 4, con il titolo "A non volere due Stati sono proprio gli arabi" l'analisi di Claudia Osmetti.
Claudia Osmetti
Claudia Osmetti

 
Il simbolo dell'OLP, di cui è presidente il "moderato" Abu Mazen (anche presidente dell'ANP). Come si vede, Israele è completamente cancellato.

La “soluzione dei due Stati” è una panacea per i mali meriodientali che viene riproposta periodicamente. In realtà rischia di non essere molto distante dalla definizione di follia che ne dava Albert Einstein: «Ripetere alla nausea la stessa azione aspettandosi un risultato differente».
A più riprese, sono state le rappresentanze arabe ad averla, con variazioni ininfluenti, caldeggiata (e mai attuata), salvo scandalizzarsi adesso se il premier israeliano Netanyahu chiude la questione con un secco grazie-no. Ma perchè è sempre rimasta sulla carta? E il mondo musulmano vuole veramente uno Stato palestinese?

1) Perché non esiste ancora lo Stato di Palestina?
Dalla fine del mandato britannico sono stati i palestinesi a rifiutare ufficialmente uno Stato proprio in almeno quattro occasioni: a loro non è mai interessato il dato territoriale, la classe dirigente palestinese non ha mai avuto come scopo creare e amministrare un Paese; ha invece sempre cercato di distruggere lo Stato ebraico.

2) Quanti Paesi arabi sono disposti a riconoscere Israele?

Sono appena sei (su 22 appartenenti alla Lega araba) i Paesi musulmani che riconoscono lo Stato d’Israele.
L’Egitto e la Giordania (i quali hanno pagato col sangue dei loro capi le trattative col “nemico sionista”), gli Emirati arabi uniti, il Bahrain, il Marocco e il Sudan (che però deve ancora finalizzare la normalizzazione dei rapporti con Gerusalemme) a seguito degli accordi di Abramo del 2020. Kuwait, Iraq, ovviamente Iran, Libano, Yemen, Algeria, Tunisia e il resto del mondo islamico non ha intenzione di fare altrettanto.

3) I diretti interessati cosa dicono della soluzione?

Nel 2007 il Jerusalem media and communication centre, un’organizzazione non governativa palestinese, ha chiesto agli abitanti di Gaza e Cisgiordania quanti fossero disposti ad accettare la “soluzione dei due Stati”. Meno della metà dei palestinesi (il 47%) ha risposto di non disdegnare l’idea: percentuale che è crollata al 33% dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre scorso (il dato è stato registrato congiuntamente dal Centro palestinese per la politica di Ramallah e dal programma internazionale per la risoluzione dei conflitti dell’università di Tel Aviv).

4) Quali confini ci sarebbero in quel caso?

Perorare la causa dei due Stati significa delimitarne in modo preciso il territorio in antitesi assoluta al bercio di piazza from the river to the sea. Ma quali dovrebbero essere i confini tracciati? Molti ritengono siano le linee istituite con l’armistizio del 1949, ma i palestinesi (e gli arabi) le hanno già rifiutate.

5) Come mai gli Stati islamici non vogliono palestinesi?

Per fare un passo (ipotetico) in avanti è necessario farne uno (reale) all’indietro.
Checché ne dicano coi ritornelli della propaganda anti-israeliana, i Paesi arabi non sono mai stati solidali con la causa palestinese. Al contrario l’hanno sempre sfruttata per avallare ogni genere di campagna d’odio contro il “piccolo Satana” (copyright iraniano). Ne è un esempio la condizione dei profughi palestinesi da sempre ostaggio di gruppi terroristici, fedayin e bande armate che ne hanno minato la credibilità: i palestinesi sono stati scacciati dalla Giordania dopo il settembre nero 1970, sono tra i principali responsabili del declino del Libano e non sono mai stati accolti dall’Egitto.

6)  Che fine farebbe l’agenzia Onu Unrwa?

In questo scenario gioca una parte da protagonista l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa. I cinque milioni e 900mila rifugiati palestinesi (dei quali si occupano ben 13.448 dipendenti dell’Unrwa, in stragrande maggioranza anch’essi palestinesi e che si ritroverebbero di colpo disoccupati con la creazione di uno Stato indipendente) hanno un valore proprio in quanto rifugiati: sono la vera “arma” che i Paesi arabi hanno per impietosire l’Occidente (o parte di esso).
Al mondo musulmano conviene che i palestinesi siano percepiti come le «povere vittime» della prepotenza ebraica, anche se spesso i principali responsabili delle loro condizioni di miseria sono loro stessi. Abdel Ghassem Nasser diceva: «I rifugiati sono la pietra angolare della lotta degli arabi contro Israele, sono l’arma degli arabi e del nazionalismo arabo». Nei quattordici anni del suo mandato in Egitto, Nasser ha esteso la sua sovranità sulla Striscia di Gaza, ma non ha concesso la cittadinanza a uno dei palestinesi che lì risiedevano.

7) E il petrolio? Ha un ruolo in questa vicenda?

È la cartina di tornasole di come l’unità araba, sulla questione palestinese, sia granitica a malapena nella retorica.
L’11 novembre 2023, a più di un mese dalla mattanza di Hamas, la ummah musulmana si è riunita in un vertice a Riad, in Arabia saudita. Hanno partecipato la Lega araba e l’Oic, l’Organizzazione per la cooperazione islamica.
Quando Algeria e Libano, spalleggiati dall’Iran, hanno chiesto di tagliare le forniture di petrolio a Israele (mossa che avrebbe messo in crisi lo Stato ebraico che non ha giacimenti significativi di oro nero), la proposta è caduta nel vuoto. Non solo gli Stati aderenti agli accordi di Abramo ma anche Mauritania, Gibuti e Arabia hanno deciso di bloccare la richiesta e la dichiarazione finale congiunta si è limitata a chiedere una generica fine, a livello globale, delle esportazioni di armi a Israele.

8) Ma che cosa si intende per “Palestina”?

Il movimento palestinese, da Arafat in poi, è diviso e tutt’altro che omogeneo. A Gaza, Hamas si è imposta dalle elezioni del 2006, mentre nella West Bank la leadership sempre più in bilico di Abu Mazen (e della sua Anp, Autorità nazionale palestinese) perde consensi a ogni colpo di mortaio. Già prima del 7 ottobre l’Arab barometer, che è un istituto di sondaggi politici palestinese, rilevava come la figura più amata in entrambi i territori fosse quella di Marwan Barghouti (il “Mandela della Palestina” condannato a quattro ergastoli, in prigione da 21 anni in Israele). Barghouti conterebbe sul 32% dei consensi palestinesi, più o meno la stessa percentuale di Ismail Haniyeh di Hamas (24%) e di Abu Mazen (12%), però messi assieme. In questo scenario anche per gli Stati arabi è difficile individuare un interlocutore unico: non è un caso che l’Arabia saudita abbia nominato il suo ambasciatore per i Territori palestinesi, Nayef al Sudari, solamente nell’agosto del 2023. Ancora: nel settembre del 2020, l’Anp ha rinunciato polemicamente alla presidenza di turno del Consiglio della Lega araba perché quest’ultima non aveva sottoscritto una risoluzione contraria al primo accordo tra Israele ed Emirati, mettendo di fatto i palestinesi in disparte.

9) La causa palestinese anima il mondo arabo?

Risposta breve: no. Risposta articolata: sono tante le avvisaglie che, all’interno dei panarabismo e dei movimenti arabi, siano cambiati gli equilibri. Ovviamente la posizione ufficiale, soprattutto a livello propagandistico, rimane di affiliazione e coi fratelli di Gaza city e Ramallah, ma nella pratica qualcosa s’è rotto. Nell’ottobre del 2020, il principe Bandar di Riad, l’ex capo dei servizi segreti sauditi, ha riassunto questo passaggio in un’intervista a un’emittente nazionale nella quale ha sostenuto, senza mezzi termini, che il regno dovrebbe avere la sua priorità nelle questioni di sicurezza (soprattutto in chiave anti-iraniana) e non sulla causa palestinese: «Siamo arrivati al limite della pazienza con loro». Loro, a scanso di ogni equivoco, erano i palestinesi.

10) Che fine hanno fatto gli accordi di Abramo?

Un osservatore poco attento (o male informato) potrebbe pensare che dopo il raid dei tagliagole di Hamas i negoziati per la normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e alcuni Stati arabi si siano interrotti. La longa manus di Teheran, il ruolo dell’Hezbollah libanese e le reazioni di Paesi come la Turchia potrebbero chiudere il cerchio. Ma così non è. Nonostante uno degli intenti del 7 ottobre fosse indubitatamente quello di bloccare l’iter degli accordi di Abramo, quegli stessi accordi non sono stati tranciati, hanno semmai subito un rallentamento momentaneo. Segno ne è la recente dichiarazione del ministro dell’Energia di Israele, Eli Cohen, secondo il quale la pace con l’Arabia sarebbe ancora possibile entro l’anno.

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