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Libero Rassegna Stampa
21.12.2023 Femministe mute su Saman e Iran
Commento di Giovanni Sallusti

Testata: Libero
Data: 21 dicembre 2023
Pagina: 11
Autore: Giovanni Sallusti
Titolo: «Femministe mute su Saman e Iran»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 21/12/2023, a pag.11 con il titolo "La conferma che l’antisemitismo è di sinistra" il commento di Giovanni Sallusti.
 
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Giovanni Sallusti
 
Samira Sabzian
Samira Sabzian, impiccata dal regime iraniano
 
Poi, dopo settimane di retorica prestampata, adunate femministe, caccia al maschio purchessia, arriva il patriarcato. Quello vero. E il discorso pubblico si scopre impigrito, la marea d’indignazione è diventata risacca indolente, i giudizi perdono in severità e rigore. Quella che segue è la cronaca di un’omissione, di un atto di condanna mancato, o incompleto, proprio quando la (sotto)cultura omicida patriarcale si disvela nella sua versione più sistematica, più ancestrale, più efferata. Che, scandiamo subito la parola proibita, è la versione ”i-sla-mi-ca”, come raccontano i due tempi di questa cronaca raggelante.

DONNE SENZA VALORE
 
Primo tempo: Karaj, Iran settentrionale. All’alba di ieri, viene eseguita tramite impiccagione la condanna a morte di Samira Sabzian, 29 anni.
Samira è stata una sposa-bambina, costretta a un matrimonio forzato a 15 anni. Una quotidianità di violenza, annichilimento, riduzione di fatto in schiavitù coranica. A 19 anni non ce la fa più, durante l’ennesimo episodio reagisce e uccide il marito. Viene arrestata e sparisce nelle carceri degli ayatollah, fino alla corda che le spezza il collo. Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong Iran Human Rights che ne ha denunciato l’esecuzione, ha detto: «Samira è stata vittima di anni di apartheid di genere, matrimoni infantili e violenze domestiche, e oggi è stata vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto». Ancora, e ogni parola è irrinunciabile: «Ali Khamenei e gli altri leader della Repubblica islamica devono rispondere di questo crimine». È la Repubblica ISLAMICA, ad impiccare le donne che si ribellano alla persecuzione patriarcale. È sotto l’Islam politico e totalitario che esistono le nozze imposte, che sono sdoganate le spose-bambine, che la dignità e la vita di una donna valgono teologicamente (e quindi legalmente, il codice da quelle parti si chiama sharia) meno di quelle di un uomo. È sotto l’Islam, che prospera oggi la versione più pervasiva e brutale di patriarcato, un patriarcato allo stesso tempo di Stato e di confessione. Eppure, nessuna esponente di Non una di Meno, o del vario e avariato femminismo italico, protestava ieri a Roma in via Nomentana 363, davanti all’ambasciata della Repubblica islamica iraniana (e parliamo delle stesse signore che assalivano la sede di una libera associazione di idee come Pro Vita e Famiglia). Nessun giornalone metteva online, nei titoli, nei catenacci, nemmeno nei pezzi, la parola “islam” o “islamico”, evidentemente una quisquilia irrilevante nel racconto della vita devastata e della morte barbara di Samira. Analoga amnesia linguistica coglieva la politica progressista e l’associazionismo impegnato. Valgano per tutti la nota del Pd (“non è più possibile che nel 2023 ci possano essere ancora questi veri e propri assassinii”, forse in nome di Buddha, forse in nome di Confucio) e quella di Amnesty International Italia (“Samira è la tragica testimonianza di un sistema imperniato sull’oppressione delle donne”, peccato, “islamico” è accidentalmente rimasto nella penna).
Al fondo, nessuno di costoro vuole ammettere che la questione del patriarcato, presa seriamente, è oggi una faccia di quello che Samuel Huntington chiamava “scontro di civiltà”, e no, non è una faccia che si aggira in Occidente.

CLEMENZA PER GLI ASSASSINI
 
Secondo tempo: Corte di Assise di Reggio Emilia, ventiquattr’ore prima.Viene emessa la sentenza sul caso di Saman Abbas, diciottenne pakistana ammazzata dai famigliari perché rifiutava l’inferno del matrimonio forzato, l’inferno di Samira e di tante altre. La madre Nazia (latitante) e il padre Shabbar sono condannati all’ergastolo in quanto mandanti del femminicidio (altro termine che in questo caso latita nelle cronache, dove in genere imperversa). Lo zio Danish, riconosciuto esecutore materiale dell’orrore, prende 14 anni. Quattordici anni: tre in meno di quelli toccati a Mario Roggero, il gioielliere che ha sparato a due ladri, i quali avevano fatto irruzione nel suo negozio e avevano malmenato e terrorizzato la sua famiglia. Non sarà formalmente legittima difesa, sarà un eccesso reattivo di fronte a un crimine subito. In ogni caso, non c’è proporzione della giustizia, non può pesare più delle mani al collo della nipote, colpevole di voler indossare i jeans e decidere chi amare, fino a cancellarle il fiato, per sempre. Oh certo, ci sono i tecnicismi giustificativi, le attenuanti generiche per aver fatto ritrovare il cadavere, la scelta del rito abbreviato, che hanno dimezzato l’iniziale pena di 28 anni (comunque non molti, per uno che si è fatto giustiziere “culturale”, che ha portato in Italia le usanze dei mullah). Ci sono sempre, i tecnicismi giustificativi. C’è anche la sensazione, fattuale e ineludibile, che i giudici di Reggio abbiano adottato lo stesso tic politicamente corretto delle femministe improvvisamente mute, dei commentatori in ferie prenatalizie, del mainstream meno loquace e perfino riservato di fronte all’impiccagione di ieri. Abbiano, cioè, chiuso un occhio di fronte alla ferocia prettamente islamica, al fatto che Saman non è morta per accidente o ira momentanea, ma è morta di sharia. Che è poi l’unica, vera forma odierna di patriarcato.
 
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