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Panorama Rassegna Stampa
10.03.2003 Una nuova generazione di scrittori
Lontano dell'ideologia dei padri, i giovani scrittori israeliani

Testata: Panorama
Data: 10 marzo 2003
Pagina: 204
Autore: Claudia Rosenzweig
Titolo: «Israeli Blues»
Riportiamo un articolo di Claudia Rosenzweig pubblicato su Panorama lunedì 10 marzo 2003,nel quale analizza le nuove voci della narrativa israeliana.
Alla radio israeliana, specialmente su Gale' Tzahal, l'emittente dell'esercito, la più ascoltata dai giovani, capita spesso di sentire una canzone dei Tipex: «Sediamo in un caffè/ e ci sentiamo in mezzo a una bolla/ cos'è che non abbiamo fatto/ dov'è che abbiamo sbagliato/ cos'è cambiato. (...) Sediamo in un caffè/ e ci sentiamo come all'estero/ cos'è che non abbiamo fatto/ dov'è che abbiamo sbagliato...».

Nonostante i conflitti esterni e interni, anche sotto la costante minaccia del terrorismo, i caffè di Gerusalemme e di Tel Aviv sono pieni. Si attende pazientemente che la guardia ci perquisisca, ma una volta dentro è tutto come sempre. Alla fine pagheremo un piccolo extra per la «sicurezza».
È al caffè Bialik di Tel Aviv che Etgar Keret, scrittore della nuova generazione, mi ha dato un appuntamento, e al caffè Roladin l'ho rivisto, insieme a Savyon Liebrecht, a Yehudit Rotem, a Shifra Horn, scrittori anche loro. Aharon Appelfeld ama recarsi ogni giorno al caffè di Ticho House, a Gerusalemme, e lì appartarsi a scrivere. Le abitudini della vecchia Europa sono sopravvissute. La mania per la parola, tipica degli ebrei della diaspora, è sicuramente arrivata fin qui. In Israele si parla e si scrive tantissimo e il caffè sembra ancora un posto adatto allo scopo. Ritroviamo qui un altro aspetto caratteristico, da sempre, della società ebraica prima che israeliana: il posto degli intellettuali è in mezzo alla gente e, per quanto costoro possano essere critici e sarcastici, non sono mai separati o distanti.

La percezione italiana di quello che succede nella letteratura israeliana risente molto dell'interesse per la politica dello stato ebraico, nonché della bizzarra sorte che tocca ai libri una volta che sono nelle mani dei lettori. Molti degli autori che hanno fatto la storia della letteratura ebraica negli ultimi venti anni accanto ad Amos Oz e a Meir Shalev sono perfettamente sconosciuti in Italia: basti pensare ad Aharon Meghed, a S. Yizhar e a Hayim Be'er, così come sconosciuti in Italia sono molti della generazione dei «fondatori», primo fra tutti Yosef Hayim Brenner, l'unico autore di romanzi in ebraico che Franz Kafka decise di leggere in lingua originale, ma anche Hayim Nahman Bialik, e Dvora Baron e altri ancora. Gli scrittori più noti in Italia sono spesso quelli più politici, come Amos Oz e A. B. Yehoshua, il quale in Italia gode di una notorietà forse maggiore di quella di cui gode in Israele. Astrarsi dalla politica è del resto impossibile, anche se David Grossman e Meir Shalev sono riusciti a mantenere divise le loro opere narrative dai loro interventi politici.
Accanto a questi grandi della letteratura israeliana contemporanea, molti scrittori hanno deciso di seguire strade diverse, utilizzando una lingua più simile a quella parlata per raccontare una vita quotidiana più vicina a quella vissuta dai giovani, soprattutto quelli gravitanti nella zona di Tel Aviv. Gli autori della generazione precedente sono cresciuti in kibbutz, hanno sempre lavorato come insegnanti o professori universitari, hanno vissuto la nascita e la trasformazione dello stato, le sue guerre e le lotte ideologiche e politiche, hanno fatto parte integrante della società e se ne sono fatti carico nella loro scrittura; gli scrittori della nuova generazione si sono formati come autori per la televisione e il cinema, oppure come giornalisti. Al romanzo preferiscono il racconto.

Il più geniale fra questi è senza dubbio Etgar Keret. Nato nel 1967 da genitori sopravvissuti allo sterminio nazista, Keret sta creando di fatto un nuovo genere letterario rappresentato da racconti brevi, a volte crudeli, altre più umoristici, scritti in uno stile rapido che non è mai superficiale. In Italia è poco conosciuto: la traduzione italiana di Mi manca Kissinger (Theoria, 1997) è passata quasi inosservata. Ora è in uscita, per i tipi della casa editrice e/o, Pizzeria Kamikaze, una raccolta di racconti tratti dai suoi libri Tubi, Nostalgia per Kissinger, La colonia estiva di Kneller.
Uno dei più grandi scrittori israeliani viventi, Yoram Kaniuk, molto noto in Italia (Adamo risorto, Il comandante dell'Exodus, Post mortem, Tigerhill, Il ladro generoso, per citare solo alcuni dei titoli disponibili in italiano), ha detto di Etgar Keret e degli scrittori della sua generazione che rappresentano qualcosa di «tel-aviviano», di distaccato dall'eternità di Gerusalemme o dalle bellezze delle notti di Canaan, qualcosa che fa parte di una cultura indipendente, che sta in piedi da sola. E questa «tel-avività» potrebbe sembrare leggera, ma non lo è. Non ha patria. Non ha madre né padre. È la famiglia di se stessa. Non canta lo sradicamento di ciò che è piantato né sa che cosa sia. È qui perché è viva, per la lingua, ed è perché Tel Aviv è la città più vivace di Israele.
Etgar Keret ha creato uno stile, un modo di concepire la letteratura estraneo a ogni tipo di ideologia e di retorica. Un giornalista israeliano ha coniato il termine «Israeli blues» per descrivere la cultura israeliana in questa sua ultima fase e scrittori che, come Keret, posseggono una sorta di grazia che li rende capaci di catturare nella vita più banale e ordinaria una specie di felicità che vola a mezz'aria, troppo pesante per spiccare il volo, un'attenzione umana sottile e resistente anche nella volgarità più aggressiva.
Sulla stessa sua linea si pone Uzi Weill, nato nel 1964, cresciuto a Tel Aviv, autore di un volume di racconti, Felicità (2001). Sarcasmo e fantascienza mischiati alla passione per la provocazione e l'assurdo caratterizzano la sua scrittura. Un altro giovane autore di racconti (uno dei quali, Gocce per il naso, era apparso in una raccolta pubblicata da Theoria dal titolo Nuovi narratori israeliani) è Gadi Taub, formatosi come scrittore di programmi televisivi per bambini. E accanto a lui ci sono Uri Tsaig, Shai Tubali, Alona Kimhi, tutti nati tra gli anni 60 e i primi anni 70.
Alona Kimhi, nata in Russia ed emigrata in Israele nel 1972, è autrice di un libro particolarmente insolito e divertente, Susanna in un mare di lacrime (Rizzoli, 2001): tra Ramat-Gan e Tel Aviv la protagonista racconta in prima persona una società dove i problemi e le risposte a questi sono individuali, dove nella vita non c'è niente di romantico, bensì una costante sensazione di profondo disagio, dove le divisioni interne allo stato ebraico portano al crearsi di situazioni esilaranti e paradossali.
Tra la fantascienza e il più brutale realismo si situa un libro estremamente originale, che negli ultimi mesi ha fatto molto discutere. Ne è autrice una delle figure più dure e senza sogni che ci siano in Israele: Orly Castel-Bloom. Il suo nuovo romanzo Frammenti umani, che presto uscirà in Italia per e/o, è il primo a trattare in modo diretto di quello che succederà e forse già succede in Israele se continueranno la seconda intifada e l'inerzia della classe politica. Vi viene descritta la vita israeliana in un imprecisato anno 2000 e qualcosa dove all'aumento vertiginoso degli attentati terroristici e allo stallo della diplomazia nei colloqui israeliano-palestinesi si aggiungono una strana perturbazione atmosferica, caratterizzata da un freddo gelido che arriva a rendere di ghiaccio la superficie del Mar Morto, e una forma influenzale chiamata «saudita», che porta alla morte. La società israeliana vi appare mostruosa: priva di solidarietà sociale e di valori, completamente disillusa, religiosa per interesse, o debolezza. La neve, pesantissima, fa crollare «gli alberi piantati dai pionieri agli inizi dell'insediamento ebraico», uno dei simboli più forti della storia sionista. Per Orly Castel-Bloom, come per la maggior parte degli scrittori della sua generazione, il sionismo è finito da un pezzo. Nel futuro non si intravede niente, tranne la catastrofe.
Quello che in generale caratterizza la scrittura degli autori menzionati è che per la prima volta con loro si riduce la distanza tra letteratura popolare e letteratura alta. Specialmente a proposito di Orly Castel-Bloom si è parlato di una lingua volutamente scarna, magra. Qui non c'è più l'epica dei fondatori e dei profeti, degli scrittori cioè che si sentivano investiti di una responsabilità storica, forgiare una nuova cultura. È scomparsa l'introspezione di Grossman e di Kenaz, né interessano gli echi del passato, delle fonti ebraiche, del rapporto con la diaspora. La realtà diventa un puzzle dove i pezzi non combaciano mai, dove lo stupore è un lusso che non ci si può permettere, dove nessuna ingenuità è più concepibile.
Non tutti, certo, hanno il progetto di compiere una vera e propria rivoluzione contro quel modo di intendere la scrittura che la legava alle ideologie, all'impegno politico, alla fede. Tutti però tendono a registrare una situazione, a raccontarla senza cercarvi significati a ogni costo, in uno stile il più possibile antiretorico.
«Invidio gli scrittori come Amos Oz e A. B. Yehoshua» ha raccontato una volta Etgar Keret «per via della sicurezza che si percepisce nella loro scrittura. Io sono un po' confuso».
Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio parere alla redazione di Panorama. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

rossella@mondadori.it

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