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L'Espresso Rassegna Stampa
12.09.2003 Domande e risposte costruite ad arte
Francia & Espresso: uniti contro Israele

Testata: L'Espresso
Data: 12 settembre 2003
Pagina: 30
Autore: Gigi Riva
Titolo: «L’Unione fa la pace. Colloquio con Dominique de Villepin»
Si potrebbe definire un’intervista con i paraocchi e in questo caso le bende sono da due parti: da parte dell’intervistatore Gigi Riva, che pone domande ben congegnate ed evita di toccare i discorsi più importanti legati alla sopravvivenza del terrorismo ed alla sicurezza di Israele per fornire una immagine a senso unico della Road Map e gettare una ciambella di salvataggio all’immagine di Arafat; da parte dell’intervistato Ministro degli Esteri francese Dominique de Villepin che non nasconde le tradizionali simpatie verso la causa palestinese, preoccupandosi di farle apparire come espressione dell’Unione Europea.
In sintesi, il pensiero del ministro francese risulta piuttosto chiaro: a prescindere dagli eventi, le condizioni per poter iniziare un dialogo di pace sono l’abbandono di Israele della politica rivolta alla sicurezza, la concessione di ogni risorsa possibile ai palestinesi e la presenza di forze internazionali che facciano rispettare (ad Israele) i patti.

Ma veniamo più in particolare all’articolo.
Gigi Riva lancia un salvagente all’immagine di Arafat domandando se il personaggio può essere un valido interlocutore; la replica è che:

"Arafat è il presidente eletto. Sappiamo quale simbolo sia per la sua gente. Impossibile non tenerne conto."


La risposta è chiarissima, Arafat è un leader eletto dal popolo (fortunatamente non è stato detto "democraticamente") ed è un importante simbolo. Quindi non rileva che si tratta di un personaggio che si è approfittato per scopi personali della causa palestinese, che distrae fondi che vengono inviati da vari enti finanziatori (fra cui anche l’UE), che ha sempre fatto il doppio gioco, che ha sempre mantenuto il controllo (politico e/o economico) delle organizzazioni terroristiche, che ha di fatto rifiutato qualsiasi trattativa di pace nel passato e che pertanto impersona oggi il più grosso ostacolo per qualsiasi dialogo.

Rispetto alla possibilità di esilio di Arafat il ministro risponde che:

"Sarebbe un grave errore e io credo che questa mia analisi sia largamente condivisa. Gli americani, ad esempio, non sono favorevoli all’espulsione. Qui o si comincia un processo di pace o si perpetua la logica dello scontro. Sarebbe una responsabilità pesante, sarebbe voltare le spalle alla pace"
Quindi l’espulsione di Arafat costituirebbe la negazione della volontà di pace, quando sembra invece che proprio Arafat sia stato il principale ostacolo per qualsiasi trattativa.

Ma andiamo oltre, il giornalista afferma che:

Il governo Sharon lo considera un terrorista pienamente coinvolto nella seconda cruenta Intifada".
Anche in questo caso la risposta del ministro è chiara: "Noi l’abbiamo già constatato. Fissarsi sulla persona di Arafat conduce a una impasse. Mobilitiamo tutti i palestinesi, cerchiamo la loro unità. Se lavoreremo tutti nella stessa direzione otterremo dei risultati"

Qual è la proposta del ministro? Trascurare la presenza di Arafat concentrandosi su altro lasciandolo quindi libero di continuare a portare avanti la sua "politica"? Cercare l’unità dei palestinesi? Da indagini statistiche risulta che l’unico elemento sul quale gran parte dei palestinesi è concorde è l’eliminazione di Israele.

L’articolo di Gigi Riva prosegue poi con l’intervista (qui riportata per brevità per le parti che interessano).

Proprio voi francesi avete tergiversato a lungo prima di accettare che Hamas fosse messa nella lista delle formazioni terroriste. Come mai?

"Tra noi europei bisognava pesare bene le cose, avendo presente che è necessario preservare l’unità dei palestinesi; e avendo contemporaneamente coscienza della complessità di Hamas che ha una componente politica e militare e una dimensione sociale importante per la popolazione palestinese. Ma quando Hamas ha rivendicato l’attentato del 19 agosto (21 morti su un autobus a Gerusalemme, ndr), abbiamo rotto gli indugi. Se poi Hamas deciderà di organizzarsi solo come movimento politico e sociale e rinuncerà alla violenza potremmo tornare sulla decisione presa".
Invitiamo i nostri lettori a valutare la "dimensione sociale" di Hamas. Ci si riferisce all’indottrinamento, al fatto che a scuola viene insegnata la Jihad, al fatto che vengono organizzati campi estivi di addestramento intitolati a "martiri", al trattamento riservato ai collaborazionisti, alla pressione economica e armata che viene fatta a tutte le famiglie palestinesi. Tuttavia il ministro francese valutando in modo differente la funzione sociale di Hamas ha affermato che il momento più imbarazzante è stato solo quando dell’organizzazione terroristica ha rivendicato l’attentato di Gerusalemme.
Lei dice: la Road Map è l’unico strumento che abbiamo. Come utilizzarlo meglio, allora?

"Dobbiamo cercare di velocizzare le tappe, procedere più spediti. La gente deve avere la percezione che la vita quotidiana sta cambiando, al meglio, da subito. L’obiettivo di uno Stato palestinese non è sufficiente, ci vogliono dei segni tangibili per mantenere la speranza".
Invitiamo i nostri lettori a ripensare alle tappe della Road Map e a quante di questo fino ad oggi sono state ignorate. In sintesi sono la fine di ogni violenza, il perfezionamento di atti volti al riconoscimento di Israele, l’arresto di terroristi, la confisca di armi, lo smantellamento delle infrastrutture delle organizzazioni terroristiche, la fine di ogni forma di incitamento alla violenza e all’odio, l’arresto di ogni supporto al terrorismo da parte dei Paesi Arabi, la creazione ed il consolidamento delle forze di sicurezza palestinesi, l’istituzione di riforme democratiche.

Se queste tappe fossero state rispettate (almeno in parte), i palestinesi avrebbero avuto non solo la "percezione" ma addirittura la certezza che la loro vita era notevolmente cambiata.

Il governo Sharon non è disposto a trattare su questioni cruciali come lo status di Gerusalemme o il ritorno dei profughi, oltre che sulla sicurezza.

"Ciascuno può porre le sue regole del gioco all’inizio dei negoziati. Poi bisognerà mettersi attorno a un tavolo per affrontare a fondo i problemi. La difficoltà più grande è che oggi pochi credono nella capacità di entrambe le parti di fare da sole, senza una forte pressione esterna, dei progressi".
Ci limitiamo a ricordare che in varie occasioni sono state avviate trattative (ad esempio gli accordi di Oslo) e che queste sono sempre state bloccate o rifiutate solo da parte palestinese.
C’è l’eterna questione di chi deve cominciare per primo con le concessioni.

"Tutti e due, contemporaneamente. Così si capirà finalmente quale prezzo sono rispettivamente disposti a pagare per la pace. Israele si ritiri dai territori occupati, mandi liberi i prigionieri. E i palestinesi lottino veramente contro il terrorismo".
A questo proposito i nostri lettori ricorderanno sicuramente che alcune settimane fa Israele aveva effettivamente liberato prigionieri e ritirato le proprie postazioni ma non era seguito alcun positivo effetto da parte dei gruppi palestinesi. La politica di Israele è sempre stata chiara ed orientata a concessioni in cambio di sicurezza. Sicurezza che i palestinesi non hanno avuto la volontà o la possibilità di fornire e che i francesi ritengono di secondaria importanza.
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