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Informazione Corretta Rassegna Stampa
04.03.2023 Analisi in favore delle critiche al governo Netanyahu
di Giovanni Quer

Testata: Informazione Corretta
Data: 04 marzo 2023
Pagina: 1
Autore: Giovanni Quer
Titolo: «Analisi in favore delle critiche al governo Netanyahu»
Analisi in favore delle critiche al governo Netanyahu
di Giovanni Quer

Israele, la protesta del sabato dei giovani di Tel Aviv: “Netanyahu  vattene” - la Repubblica
Una manifestazione contro il governo a Tel Aviv

Israele attraversa una profonda crisi. Non si riesce a giudicare la riforma della giustizia fuori dallo schema destra-sinistra, per cui qualsiasi critica alla proposta di legge che vuole cambiare il volto di Israele è giudicata come una posizione di sinistra e anti-Netanyahu. I difensori della riforma continuano a esser sordi alle critiche e alle preoccupazioni di ampi settori sociali. La crisi è aggravata anche dal culto della persona di Netanyahu, alle cui capacità politiche molte persone si affidano ciecamente, senza considerare l’insieme dei cambiamenti che l’attuale coalizione vuole apportare a Israele.


La coalizione al governo dipinge le proteste, definendole “violente” o “manifestazioni di anarchici”, oppure come vengono denigrati quanti da destra a sinistra si oppongono alla riforma, considerati alla stregua di un “BDS interno”, come ha detto il Ministro Yariv Levin.


Giudicare la riforma o le critiche a questo governo alla luce dei rancori contro la sinistra liberale, è fuorviante, o alla stregua di una rivincita della destra sul presunto potere elitario della sinistra è infondato, perché quanti si oppongono alla riforma appartengono a diverse identità politiche. 


Da tempo la Corte Suprema è tacciata dalla destra di elitarismo liberale, di imposizionismo lontano dalla realtà e dalla volontà del popolo. Peggio ancora, è accusata di mettere delle briglie all’esercito, di soffocare la maggioranza, di non considerare l’ebraicità dello Stato.


Se Israele è la democrazia liberale che è oggi è proprio perché la Corte Suprema ha adottato decisioni che non sarebbero mai passate alla Knesset (diritti delle donne, uguaglianza nelle commissioni dei servizi religiosi, il diritto all’astensione dall’accanimento sanitario per i fine vita, diritti LGBT). Sono tutti i punti di cui chi ha difeso e difende Israele contro la delegittimazione.


Non ci sono esempi che dimostrino come la Corte Suprema possa avere limitato o inficiato la sicurezza di Israele. Né ci sono esempi di come la Corte Suprema abbia limitato o inficiato l’ebraicità di Israele.


La Corte Suprema non ha mai oltrepassato due linee di principio: la questione religione-stato e la questione della difesa. Per esempio, le numerose cause dei residenti laici contro i residenti religiosi di quartieri misti  sono sempre finite con decisioni che invitano le parti a trovare compromessi di convivenza. I ricorsi contro le decisioni dei tribunali religiosi, prevalentemente in campo di diritto di famiglia, si sono sempre limitate a rinviare le decisioni che violano diritti fondamentali perché fossero gli stessi giudici dei tribunali religiosi a trovare delle soluzioni all’interno delle loro giurisdizioni, e questo ha portato allo sviluppo della halakhà (il diritto ebraico) e anche della shari‘a islamica.


L’unico caso in cui la Corte Suprema è intervenuta in materia di sicurezza è stato con la decisione sulla “pratica del vicino”, contraria al diritto internazionale. In passato il mondo ha criticato la Corte Suprema per aver permesso e dato una cornice giuridica alla eccezionale “pressione fisica e psicologica, definita “tortura” da chi delegittima Israele, e nel caso della “bomba ticchettante”, cioè di imminente pericolo di un attacco terroristico e alle eliminazioni mirate. In Israele l’esercito ha anche un consigliere che dà parere giuridico su ogni attacco o operazione, si vorrà anche eliminare questa figura perché inevitabilmente interviene sulle azioni dell’esercito?


Si è anche voluto dipingere la Corte Suprema come un gruppo di attivisti anti-coloni, e questo è il rancore covato da parte della coalizione. Per quanto riguarda Giudea e Samaria, i giudici della Corte Suprema hanno in varie occasioni deciso di cause sulla proprietà delle terre e si limitano a decidere in base alle prove che vengono fornite. Nei pochi casi in cui i palestinesi hanno dimostrato che fossero proprietari di un terreno su cui è stato costruito un insediamento, allora i giudici hanno imposto una compensazione. La Corte Suprema non è mai stata “pro-palestinese” come vogliono raffigurarla certi esponenti dell’attuale governo. E l’ultimo scontro tra Israele e Hamas due anni fa è sorto proprio all’ombra della decisione della Corte Suprema che ha riconosciuto la proprietà ebraica di un edificio nel quartiere di Shimon HaTzadik/Sheikh Jarrah a Gerusalemme.


Si vuole dipingere la Corte Suprema anche come un baluardo di secolarità anti-religiosa. Però non si tiene conto del fatto che i giudici si ispirano anche ai principi ebraici nelle loro decisioni, soprattutto su questioni che riguardano etica pubblica, adottando il metodo comparativo. Che questo spesso non sia in linea con le interpretazioni più conservatrici dell’etica ebraica non ha a che vedere con i giudici e la presunta “agenda liberale” né con l’ortodossia ebraica, che è molto più variegata ed eterogenea di quello che l’agenda conservatrice vuole far credere.


Vi sono poi i tentativi di difendere la riforma della giustizia come una modifica che rafforzerà la democrazia israeliana.


Anzitutto si dice che solo in Israele vi è l’accesso diretto alla Corte Suprema. Questo non è esatto perché ci sono altri ordinamenti che prevedono rimedi per violazioni dei diritti fondamentali, come per esempio il “recurso de amparo” in Spagna, che garantisce il diritto di un individuo di lamentare la violazione di un diritto fondamentale direttamente alla Corte Costituzionale.


In ogni Paese democratico vi è un organo giudiziario che decide sulla incostituzionalità delle leggi o l’illegittimità delle decisioni degli organi pubblici, e così fa la Corte Suprema. Questa procedura è chiamata in inglese “judicial review” e avviene anche in Paesi come il Regno Unito. Tanto più in Israele, dove non c’è una costituzione e qualsiasi legge può essere approvata da una maggioranza semplice in un Parlamento che è unicamerale, quindi senza il processo di discussione cui sono sottoposte le leggi in altre democrazie che hanno un parlamento a due camere. Oltretutto i principi fondamentali non sono solo quelli scritti nelle carte costituzionali.


La riforma dice di voler riportare il potere alla maggioranza. E qui vale la pena chiedersi due questioni: chi protegge le minoranze? Quale sarebbe la maggioranza in uno Stato i cui governi sono di coalizione? Infatti la volontà dei vari governi non rispecchia la maggioranza di Israele, bensì gli accordi di coalizione. Questo è il senso dello Stato di Diritto, una democrazia dove la maggioranza non ha carta bianca, ma il volere è limitato per proteggere le minoranze e per garantire che rispetti anche i principi fondamentali dello Stato.


A proposito di ebraicità dello Stato è interessante notare che le frange più attiviste e conservatrici vogliono avanzare la legge sulla pena di morte che da un punto di vista ebraico pone degli enormi problemi, tanto che i partiti haredì (ultra-ortodossi) non la sostengno - oltre alle opinioni contrarie di esperti e apparati di sicurezza.


Sono tutti di sinistra gli apparati di sicurezza o vale la pena di porsi qualche domanda su quelle che sono invece delle critiche legittime di chi forse di sicurezza ne sa qualcosa e che dell’esistenza e perpetuità dello Stato ebraico e della sua popolazione dedica, e spesso sacrifica, la propria vita?


Il punto è che porsi delle domande sulla validità dell’operato di Netanyahu e della coalizione al governo non fa di tutti quanti dei sinistrorsi, liberal elitisti, anti-sionisti.


Anche Begin nel 1979 si è trovato di fronte a una decisione della Corte Suprema molto infelice per la destra, allora non c’era il giudice Aharon Barak, diventato un demone liberale dipinto come un dittatore, quasi un nemico dell’intera Israele. Eppure Begin non ha dubitato nemmeno per un istante a onorare la decisione perché “siedono i giudici in Gerusalemme”, come ha detto citando il Tanakh.


La riforma vuole togliere il potere della Corte Suprema di limitare la volontà della coalizione al potere su questioni che toccano tutta Israele, non la volontà della maggioranza. Le limitazioni che la riforma vuole togliere sono anche altre: il potere dei consiglieri giuridici e il bilanciamento nelle commissioni di nomina dei giudici.


Anche in passato si è parlato di riforme, che riguardavano però altre questioni: l’indipendenza dei giudici, con la proposta di trasferire la competenza di gestione del bilancio dei tribunali dal Ministero della Giustizia e del Tesoro all’organo di gestione dei giudici. Altre riforme ipotizzano l’istituzione di giurisdizioni speciali per una migliore gestione dei processi. Altre ancora ipotizzano l’introduzione di procedure di votazione che prevedano una maggioranza qualificata per l’introduzione o la modifica delle Leggi Fondamentali.


Intanto l’esercito mette in guardia dalle riforme ministeriali sulle competenze che vengono date in mano a ministri che poco sanno o poco si interessano di questioni di rilevanza nazionale, perché devono avanzare un’agenda e render conto al loro piccolo elettorato. La tensione è ancor più aggravata dal comportamento di certi ministri che non sembrano voler condannare gli attacchi ai soldati da parte di certi membri di quello stesso elettorato che li ha portati al potere. Credere che il fenomeno sia marginale sarebbe un errore e anche giustificare le azioni come frustrazione per la sofferenza della popolazione. Non è più così marginale tra certi gruppi di oltranzisti coloni la convinzione che anche l'esercito sia “di sinistra”. Lo stesso esercito che da un anno e più sta combattendo il terrorismo che in molti credono abbia ormai assunto la forma di una terza intifada. Lo stesso esercito che è in balia di un governo con le competenze distribuite tra diversi ministeri e che non ha una politica per combattere l’ondata di violenza terroristica dal nuovo volto.


Le divisioni politiche e sociali sono riuscite a far breccia anche in quella comunanza solidale che ha reso forte Israele e la sua società in tutti gli anni e che l’ha salvata negli anni di guerre e attacchi. I riservisti dell’esercito mettono ora in dubbio questo legame, avvertendo che non faranno più il servizio militare, non perché siano degli anti-sionisti di sinistra, ma perché percepiscono che Israele cambierà talmente tanto da non esser più quello Stato per cui sono disposti a dare la vita.


Anche la Banca Centrale mette in guardia da una crisi economica che si può imbattere su tutto lo Stato perché gli investitori se ne vanno e non perché siano antisionisti o di sinistra, ma perché non si fidano di uno Stato in cui la coalizione al governo tutto decide senza bilanciamenti di potere. E la crisi incombente solo aggrava il carovita che affligge Israele da anni ormai e che una vera riforma economica dovrebbe risolvere soprattutto rompendo i monopoli che sono alla radice degli alti costi di vita.


Non vale la pena forse pensare che c'è della ragione nelle preoccupazioni sulla proposta di riforma? Da destra a sinistra le voci che si oppongono alla riforma sono preoccupate anche per le profonde divisioni sociali che si intensificano. Difendere la riforma pare essere una questione di identità politica e lealtà a Netanyahu, ammantando le argomentazioni con i rancori verso la sinistra elitista lontana dal popolo e anche contro la destra liberale jabotinskiana che non considera più Netanyahu il proprio leader.


Che la riforma passi o meno, Israele è destinata a cambiare. Le divisioni sociali aggravate da coalizioni di piccoli gruppi legati a interessi specifici e ad agende politiche che non rispecchiano per nulla la maggioranza non si rimargineranno così facilmente. E Israele ha bisogno ora di unità, i pericoli dell’Iran, il terrorismo, la crisi economica.



Giovanni Quer

takinut@gmail.com

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