Il vento della normalizzazione soffia dal Kurdistan iracheno fino in Israele
Analisi di Giovanni Quer
Il villaggio di Shtula
Nel piccolo paesino di Shtula, al confine con il Libano, si intravedono sui tetti di alcune case due bandiere: quella israeliana e quella curda. Gli abitanti sono discendenti della comunità ebraica di Koy Sanjaq, nel Kuridistan iracheno e quanto mai prima sono stati vicini alla terra di origine. Venerdì 24 settembre si è tenuta a Erbil la conferenza “Pace e Ripresa” organizzata dal Center for Peace Communications. 300 i partecipanti, delle varie comunità curde ed arabe, sunnite e sciite di 6 province (Baghdad, Nineveh, Anbar, Salah al-Din, Babylon, e Diyala). Durante la conferenza sono state discusse le varie vie per la ripresa economica e per il futuro politico del Paese. Alcuni interventi hanno anche illustrato la storia del Paese, quasi dimenticata, e in particolare la presenza ebraica e il contributo della comunità ebraica alla costruzione dell’Iraq indipendente dopo la Prima Guerra mondiale.
Yair Lapid
Di qui, la chiamata alla normalizzazione, come possibile futura scelta politica dell’Iraq, sull’onda della normalizzazione tra Paesi arabi e Israele nel contesto degli Accordi di Abramo. Durante la conferenza è stato trasmesso anche un messaggio del Ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid. Al Jazeera ha riportato le reazioni ufficiali. Il governo del Kurdistan ha chiarito di non aver avuto alcun ruolo nell’organizzazione. L’ufficio del Primo Ministro iracheno Mistafa al-Kadhimi ha condannato l’evento, dichiarando che la normalizzazione con Israele è contraria alla costituzione, alla legge e alla politica dell’Iraq. Gli sciiti iracheni, vicini all’Iran, sono i più indignati. Il sito di informazioni libanese Mayadeen, vicino a Hezbollah, ne dà un resoconto. Qais al-Khazali, segretario del partito sciita “La lega dei giusti”, ha promesso che la resistenza islamica non rimarrà inerte di fronte al tradimento del Paese (costituito evidentemente dalla chiamata alla normalizzazione). Moqtada al-Sadr, il leader sciita temuto per la violenza delle sue milizie, ha parlato di “terrorismo sionista”.
L’altro importate gruppo sciita, l’Alleanza al-Fateh, ha parlato di crimini da perseguire. Altre figure hanno appalto di tradimento della causa palestinese e dei popoli arabi. Secondo il quotidiano al-Quds al-Arabi, la denuncia dell’evento sarebbe unanime: il segretario del partito Islamic Dawa, Nuri al-Maliki, ex Primo Ministro, avrebbe dichiarato che gli iracheni sostengono da sempre la causa palestinese e che la conferenza sarebbe un tentativo di divisione sociale da parte dell’entità criminale sionista. I quotidiani curdi Halwer e Rudaw pubblicano la notizia riportando anche le comunicazioni del Primo Ministro israeliano Naftali Bennet, che tende una mano in favore della normalizzazione e della pace. I curdi hanno sempre avuto una vicinanza con Israele, vedendo nel sionismo una fonte di ispirazione per la causa della nazione curda e le rivendicazioni di autonomia. L’Iraq ancora è lontano dalla firma degli Accordi di Abramo, ma il solo avvenimento ha una portata epocale. Nel cuore del Medio Oriente martoriato dalla violenza jihadista dopo i decenni di dittatura del partito Baath che dell’anti-sionismo aveva fatto la propria politica, si riuniscono arabi e curdi, sunniti e sciiti per discutere dell’eventualità di un futuro accordo con Israele. Il solo parlare della possibilità che questo avvenga è un segnale di enorme cambiamento. Ed è proprio nel Kurdistan che tali eventi possono accadere.

Giovanni Quer (1983), ricercatore presso il Centro Kantor per lo studio dell'Ebraismo Europeo Contemporaneo e dell'antisemitismo, Università di Tel Aviv.