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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Messaggero Rassegna Stampa
07.05.2003 Oggi la festa dell'Indipendenza di Israele
Ecco cosa ne pensa Ehud Gol ambasciatore di Israele in Italia

Testata: Il Messaggero
Data: 07 maggio 2003
Pagina: 15
Autore: Ehud Gol
Titolo: «Israele da 55 anni senza pace, ora si spera in una "svolta»
Riportiamo un'analisi di Ehud Gol, ambasiatore di Israele in Italia pubblicata su Il Messaggero mercoledì 7 maggio 2003.
OGGI ISRAELE celebra cinquantacinque anni di vita libera e democratica come Stato occidentale in Medio Oriente. Dal giorno in cui Ben Gurion proclamò l'indipendenza del moderno Stato d'Israele, tanta acqua è passata sotto i ponti. Abbiamo dovuto difenderci in ben cinque guerre imposteci dai nostri vicini, la maggior parte dei quali ancora oggi si rifiutano di accettare la nostra presenza come legittima espressione del diritto del popolo ebraico ad esistere. Israele non ha ancora trovato la sua pace.
Sin dalla fondazione del nostro Stato, non è passato decennio senza che fossimo chiamati a resistere agli attacchi degli eserciti arabi e al terrorismo islamico. Tutti i tentativi di distruggerci sono falliti. L'Egitto e la Giordania hanno infine riconosciuto che la coesistenza è preferibile alla guerra e hanno firmato con noi trattati di pace rispettivamente nel 1979 e nel 1994. Nel 1993 sono iniziati i negoziati con l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina con l'obiettivo di risolvere le controversie esistenti con mezzi pacifici e diplomatici. Nel firmare lo storico accordo di Oslo, l'Olp rinunciò all'uso della violenza in cambio di territori.
In sette anni di negoziati il terrorismo palestinese ha continuato a colpire, mentre i negoziati andavano avanti e i territori venivano ceduti alla nuova Autorità autonoma Palestinese. Quando è giunto il momento di discutere le questioni più difficili, Israele ha avanzato quella che la comunità internazionale ha considerato l'offerta più ampia che potesse fare. Il leader palestinese Arafat ha risposto con un secco rifiuto e prima di lasciare Camp David ha ordinato alla sua organizzazione armata di lanciare una campagna terroristica contro civili israeliani che è costata la vita a 763 israeliani e centinaia di palestinesi. L'Intifada di Arafat ha costretto l'esercito israeliano ad intraprendere misure difensive che alcuni europei si sono affrettati a definire "ciclo di violenza", come se non ci fosse differenza alcuna tra vittima e aggressore.
L'anno scorso l'amministrazione americana è giunta alla conclusione che Arafat, che non ha mai cessato di usare la violenza per i suoi fini politici, è il principale ostacolo alla pace. Dopo mesi di insistenza da parte dei mediatori americani, la scorsa settimana il raìs ha nominato primo ministro Mahmoud Abbas (Abu Mazen). La nomina potrebbe essere la luce alla fine del tunnel ma ciò dipende da due fattori: la capacità di Abu Mazen di allontanarsi dall'ombra e dal controllo di Arafat e la pressione con cui la comunità internazionale riesce a spingerlo a comportarsi da vero leader del suo popolo.
Abu Mazen, che ha ripetutamente dichiarato che l'Intifada è stata un errore e che non si possono guadagnare concessioni con il terrorismo, simboleggia la speranza che ci possa essere una leadership palestinese che creda nella pace. Perciò, il vero test della nuova dirigenza sarà dato dalla indipendenza del primo ministro dai comandi di Arafat e dalle sue misure concrete in applicazione degli accordi di sicurezza esistenti, quali ad esempio il disarmo dei gruppi terroristici.
La comunità internazionale può e deve giocare un ruolo decisivo nel riportare israeliani e palestinesi al tavolo negoziale. Il coinvolgimento americano nel Medio Oriente è a livelli senza precedenti e l'influenza dell'Europa sul mondo arabo è molto forte. La dipendenza palestinese dai finanziamenti e dagli aiuti europei può essere usata come leva per convincere la rinnovata leadership palestinese dell'importanza della ricerca pacifica di un compromesso e della fine della violenza. Gli europei che desiderano sostenere Abu Mazen nei suoi sforzi farebbero meglio a tagliare tutti i ponti con Arafat per non minacciare l'autonomia del primo ministro e il consolidamento del suo controllo sul governo.
L'Italia, che sta per entrare nel semestre di Presidenza dell'Ue, avrà un ruolo decisivo nel plasmare la politica europea verso il Medio Oriente. Due sono le possibili alternative per l'Europa sotto la guida italiana: o rimanere divisa e inefficace rispetto al conflitto israelo-palestinese, oppure diventare unita e utile. Le eccellenti relazioni che l'Italia intrattiene sia con Israele che con il mondo arabo la pongono in una posizione privilegiata per aiutare le due parti a negoziare direttamente e in buona fede al fine di portare stabilità nella regione. I capisaldi della nuova stabilità saranno la fine del terrorismo palestinese, le riforme e la democrazia nell'Autorità Palestinese e quindi il ridispiegamento delle forze israeliane da Cisgiordania e Gaza. Secondo la "road map" presentata dalle parti la settimana scorsa, il passo successivo è la negoziazione di una soluzione permanente al conflitto.
I mesi a venire sono dunque cruciali e lasciano intravedere un possibile punto di svolta nella storia del Medio Oriente. Un maggiore realismo da parte della dirigenza palestinese e un approccio più equo da parte dell'Europa sotto la guida italiana potrebbe essere la chiave di volta per il ritorno al processo di pace.
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