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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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Il Messaggero Rassegna Stampa
20.10.2005 Processo a Saddam: c’è ancora spazio per l’antiamericanismo.
le inquietudini tendenziose di Marcella Emiliani

Testata: Il Messaggero
Data: 20 ottobre 2005
Pagina: 1
Autore: Marcella Emiliani
Titolo: «Condannare lui ma non i sunniti»
E’ iniziato il processo a Saddam. C’è di che esultare: in un paese martoriato come l’Iraq questo evento rappresenta la rivincita della democrazia, dei diritti e della dignità dell’uomo sul un tragico passato di prevaricazione. Non solo: è un evento che si inserisce perfettamente nel progetto americano di diffusione della democrazia in Medio Oriente. Non è infatti difficile immaginare l’impatto promozionale sul mondo arabo della notizia e delle immagini di un dittatore chiamato a rispondere dei propri crimini nel corso di un regolare processo. Nel suo editoriale dedicato al tema, pubblicato in prima pagina e a pagina 15 dal MESSAGGERO di giovedì 20 ottobre 2005, Marcella Emiliani perde l’occasione di segnalare tutto questo e si avventura in un esercizio di minimizzazione mal riuscito. Dispiace dirlo, ma le argomentazioni addotte appaiono spesso troppo esili o addirittura inopportune. Perché dedicare metà dell’articolo alla considerazione che la comunità sunnita potrebbe sentirsi umiliata da una condanna di Saddam? Ammesso, ma assolutamente non concesso, che i sunniti in generale si sentano ancora rappresentati dall’ex-dittatore baathista, più che parlare di "umiliazione" e "paura", nel segno di un manierismo giornalismo piuttosto querulo, si dovrebbe parlare di "colpa". La Emiliani in proposito si chiede: "Come impedire che il processo medesimo si trasformi in un enorme atto di accusa non solo nei confronti di Saddam e dei suoi parenti ma di tutti i sunniti?". Salvo poi non fornire alcuna risposta. Cosa si deve pensare, che per la Emiliani il processo a Saddam non andrebbe fatto per ragioni di quieto vivere? In seguito la Nostra - passando per la verità di palo in frasca, come sacrificando i nessi logici alla volontà di raggiungere una "massa critica" di virulenza antiamericana, in grado di lasciare un segno nella mente dei lettori - riporta le insinuazioni dei quotidiani arabi, secondo cui la strage "minore" di Dujail sarebbe stata scelta come primo capo d’accusa, proprio per coprire la connivenza americana con i "crimini maggiori". La Emiliani evita di fare alcun commento aggiuntivo. E Halabja? E il massacro di curdi e sciiti all’indomani della prima guerra del golfo? E l’epurazione degli oppositori politici? E il finanziamento dei terroristi palestinesi? La nostra giornalista tace, adotta lo stile asettico per nascondere il braccio dopo aver scagliato la pietra. Il suo commento finale è quasi una griffe: "Certo questi sono solo timori, ma la dicono lunga sul credito che Washington riscuote a quelle latitudini".


Ecco il testo dell’articolo:

CHE Saddam Hussein non riconoscesse come legittimo il tribunale iracheno chiamato a giudicarlo era scontato. Quel: «Chi siete voi? Io sono il presidente!» è degno degli annali ossequienti e drogati della sua defunta dittatura. Saddam recita se stesso e la sua linea difensiva sembra essere tutta qui. Ma ci sono alcune cose del processo iniziato ieri che vale la pena di sottolineare. Innanzitutto che si svolge in Iraq, di fronte a giudici iracheni. Non è un particolare secondario. Fare giudicare il dittatore da una Corte internazionale e magari in una capitale europea sarebbe suonato come un’offesa alla sensibilità degli iracheni ed anche alla loro sofferenza durata quanto il regime di Saddam. Visti poi gli sviluppi della guerra in corso dal 2003, sottrarre l’ex raìs alla giustizia del suo Paese avrebbe potuto essere interpretata come l’ennesima intrusione del "cattivo" Occidente negli affari dell’Iraq, una freccia in più all’arco dell’anti-americanismo dilagante in tutto il Medio Oriente. Già così infatti le cose sono tremendamente difficili.
Tutti gli osservatori occidentali si augurano che il processo finisca per funzionare come un rito esorcistico collettivo che aiuti la popolazione a liberarsi dei fantasmi del passato per lastricare di intenzioni riconcilianti e pacifiche la via del futuro. Ma come impedire che il processo medesimo si trasformi in un enorme atto di accusa non solo nei confronti di Saddam e dei suoi parenti, ma di tutti i sunniti? I sunniti, dalla caduta del regime ba’thista che li ha espulsi dalle stanze del potere che hanno sempre monopolizzato, vivono in un coacervo di paure: paura di essere estromessi dai giochi politici, paura della vendetta dei curdi e degli sciiti, paura di affrontare col responso delle urne un futuro di emarginazione, paura di essere identificati col terrorismo che dilaga nel Paese e che mira a trascinare l’Iraq in una guerra civile ancor più sanguinosa di quella in corso. Paura. Per questo continuano ad essere apprensivi sulla sorte del loro ex dittatore: non perché lo amano, ma perché temono che li trascini con sé nell’abisso della condanna della storia. Sempre i sunniti sono ancora più allarmati perché proprio nel turno elettorale a cui avevano finalmente deciso di partecipare il referendum sulla Costituzione stanno emergendo brogli a loro sfavore che, se riconosciuti tali, li indurrebbero a gridare al complotto.
Discorso delicatissimo questo del complotto. Una rapida scorsa alla stampa araba di ieri ha infatti evidenziato una sfiducia molto accentuata degli osservatori arabi sul tipo di giustizia che sarebbe in azione a Baghdad. Perché, ci si è chiesti, per giudicare Saddam si è partiti da tanto lontano, dal 1982, da una strage quasi ignota ai più nel villaggio sciita di Dujail dove per rappresaglia il dittatore fece giustiziare un centinaio di persone? Visti i meccanismi del dibattimento, delle sentenze e delle possibilità di appello si teme infatti che si voglia condannare a morte Saddam per crimini "minori" senza arrivare ad affrontare i crimini più eclatanti per evitare che emerga quel legame ambiguo e a volte apertamente connivente che lo ha legato all’Occidente, e agli Stati Uniti in particolare, negli anni 80, per non trascinare gli stessi Usa nell’ingranaggio delle condanne. Certo questi sono solo timori, ma la dicono lunga sul credito che Washington riscuote a quelle latitudini.
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