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Il Messaggero Rassegna Stampa
30.03.2004 Il livello terra terra degli "esperti" del quotidiano romano
perchè non abolisce le pagine di politica estera ? con gli esperti che si ritrova...

Testata: Il Messaggero
Data: 30 marzo 2004
Pagina: 13
Autore: Gianni Giovannetti
Titolo: «Arginare l’egemonia di Hamas, l’ultima sfida di Arafat e Peres»
Sul Messaggero di oggi viene pubblicato un articolo analisi che sembra provenire da un altro pianeta, dove l'intifada ed il terrorismo non esistono. L'autore, Gianni Giovannetti, si lancia in analisi politiche prive di fondamento. Nostalgico degli anni di Oslo, Giovannetti ripropone il tandem Peres- Arafat per la pace, come se in questi anni non fosse successo nula. Dopo scontati parallelismi tra la violenza di Hamas e le "rappresaglie" di Sharon, parla del terrorismo internazionale come alibi per non fare la pace(?) come se gli 880 morti israeliani negli attentati fossero morti per cause naturali. Peres rientrerebbe sulla scena politica per un governo di unità nazionale ( "salute pubblica" nel testo!) ed il suo compito sarebbe quello di arginare al deriva reazionaria di Sharon per arrivare ad un ritiro israeliano
entro i confini del '67; fantapolitica dal momento che Peres, come tutti gli israeliani, prima di tutto vuole la fine del terrorismo.Per Arafat ci sarebbe poi il compito di riprendere al leadership all'interno dell'Anp e su tutti i palestinesi, Hamas compresa, per poi negoziare la pace da una posizione più credibile. Fantapolitica e nostalgia anche perchè Giovannetti fa calare il suo deus ex machina, L'Internazionale Socialista, artefice e promotrice di ogni possibile accordo di pace.Il che è semplicemente ridicolo. Tante belle parole che non trovano il minimo riscontro con la realtà.Pubblichiamo l'articolo a condizione che il lettore lo legga con il dovuto spirito ironico. Ma che poi scriva al Messaggero per protestare contro il livello dei suoi "esperti" mediorientali.

Devono fare in fretta. Dopo l’assassinio di Ahmed Yassin, il rischio è che l’ultima parola sia solo quella delle armi: i missili mirati israeliani da una parte, le autobomba e i kamikaze palestinesi dall’altra. Che a Tel Aviv prevalgano i falchi del Likud e a Ramallah il partito di Al Fatah cedi il passo all’egemonia, non solo militare ma sociale, politica e organizzativa di Hamas. Già sta accadendo. Accade che la road-map annaspi tra i fili spinati di questa trincea infinita e che la parola negoziato sia bandita dai vocabolari della politica in quella regione, da cui promana a parere di molti il grande alibi del terrorismo internazionale.
Devono fare in fretta, e lo sanno, i due grandi vecchi attori-protagonisti di questa lunga scia di dolore che bagna le sponde di Israele e quelle di Palestina: Shimon Peres e Yasser Arafat. Entrambi alle soglie del pensionamento, di una uscita di scena quasi ingloriosa e, paradossalmente, gli unici in grado di giocare l’ultima carta della pace. Continuano a guardarsi con sospetto, a non riconoscersi, eppure hanno ripreso a dialogare. Dopo l’assassinio di Ahmed Yassin, per l’appunto. Peres progettando un ritorno del suo partito a un governo di unità nazionale con Sharon per arginare la deriva reazionaria, Arafat nella speranza di restituire forza e credibilità a un’Autorità nazionale palestinese gravemente indebolita dagli israeliani e dal terrorismo.
Che poi Arafat e Peres siano membri della stessa famiglia socialista internazionale, ha fatto sì che la missione dei giorni scorsi in Israele di una delegazione dell’Internazionale socialista guidata da Massimo D’Alema avesse, alla fine, buon gioco nel rianimare quel dialogo. Per questo l’incontro trilaterale a Tel Aviv, proprio nell’ufficio di Shimon Peres in Shaul Hamelek 8, tra il ministro dell’Anp per i negoziati con Israele, Saeb Erekat, lo stesso Peres, l’ex ministro laborista Haim Ramon e la delegazione dell’Is, si è rivelato di estrema importanza.
Tanto per cominciare gli israeliani del Labor hanno messo le carte in tavola, annunciando all’interlocutore palestinese l’intenzione di entrare a far parte di un governo di salute pubblica nell’ipotesi probabile di una crisi dell’attuale maggioranza. Sia Peres che Ramon (peraltro considerato un "falco") hanno precisato che una tale prospettiva si collocherebbe in una cornice politica «di ritiro delle truppe di Israele "concordato" con Usa e Unione europea». Erekat, che è un diplomatico di vecchio corso, non ha battuto ciglio e sul piatto ha subito messo una dichiarazione impegnativa: «Anche il ritiro da Gaza è un’opportunità che va colta». E’ evidente, tuttavia, che il governo palestinese non può rinunciare a tre condizioni essenziali. La prima: «che il ritiro da Gaza rappresenta solo un primo passo del processo della road-map e non può considerarsi sostitutivo di questa», tantomeno per quel che riguarda la mappa dei confini «che deve restare quella disegnata nel ’67»; la seconda condizione riguarda il ruolo dell’Autorità nazionale palestinese che, secondo l’emissario di Arafat «dovrà essere il partner con cui concordare il ritiro». In questo senso Erekat avrebbe offerto la propria disponibilità a un «piano di tolleranza zero con le autorità multiple», vale a dire con la molteplicità di voci, anche quelle estreme, che attualmente imperversano nei Territori proprio a causa della politica di «delegittimazione dell’Anp» praticata e imposta da Tel Aviv. In pratica Erekat chiede ai futuri, probabili ministri laboristi di Israele di adoperarsi «per un rafforzamento dell’Autorità palestinese quale unica e legittima titolare della rappresentanza politica e militare del popolo palestinese». La terza ed ultima condizione concerne, infine, l’idea già messa in atto del muro di separazione: «Al quale si deve invece contrapporre ha sottolineato il ministro negoziatore un rapporto di vicinato e di cooperazione pacifica tra i due popoli confinanti», anche con l’aiuto della Ue.
Al termine dell’incontro di Tel Aviv le bocche dei vari protagonisti sono rimaste cucite. D’altra parte un ritorno così timido al dialogo tra le parti, non poteva e non doveva prevedere troppa pubblicità. Eppure trapela da quella discussione la possibilità di uno spiraglio fin qui insperato. Sia Peres che Ramon avrebbero impegnato il loro partito a fare in modo che «il ritiro da Gaza sia negoziato e graduale», condividendo peraltro il principio che «questa scelta non contraddice la road map, ma ne è un parziale e comunque importante connotato». I due leader del Labor avrebbero anche riconosciuto l’opportunità per Israele di ritirarsi dalla Cisgiordania e assicurato, comunque, che «il Labor non accetterebbe mai una occupazione seppure parziale della Cisgiordania», come d’altra parte lo stesso partito si è già impegnato ufficialmente nel confermare gli accordi del ’67.
Non è scoppiata ancora la pace. Naturalmente. I lampi sinistri del terrorismo internazionale continuano ad avvolgere di una luce acida gli sviluppi di quella crisi. Al Qaeda non c’entra, ma il sangue che scorre ancora tra Israele e Palestina come ha ricordato il presidente Ciampi appartiene «ad una spirale perversa in cui violenza chiama violenza che, per questo, bisogna spezzare al più presto». Anche i due grandi vecchi di Palestina e Israele ne sono consapevoli. Arafat, giorni fa, è giunto persino a parlare di «fratelli israeliani» che votano Sharon: può essere un segno di debolezza. Ma anche di forza per scrivere, finalmente, la parola pace.
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