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Il Messaggero Rassegna Stampa
25.03.2004 Inchino di D'Alema ad Arafat in un articolo lecca-lecca
meglio la foto ricordo, manca solo il bacino sulle guance

Testata: Il Messaggero
Data: 25 marzo 2004
Pagina: 9
Autore: Gianni Giovannetti
Titolo: «Usa e Ue impongano il negoziato»
Sul Messaggero di oggi, accanto alla cronaca della vicenda del ragazzo bomba, viene pubblicata una lunga intervista a Massimo D'Alema che ieri a Ramallah, insieme ad altri delegati dell' Internazionale socialista, ha portato il suo omaggio a Yasser Arafat. Il pezzo inizia con alcune cosiderazioni su Arafat definito vecchio capo che conserva dignità e lucidità politica, un'introduzione che è già rivelatrice della faziosità dell'articolo.
Il presidente dei Ds dopo aver condannato l'eliminazione di Yassin e l'escalation militare decisa dal governo israeliano ( come da faziosa consuetudine più volte chiamato governo di Tel Aviv), mostra il suo acume e la sua capacità di elaborazione ripetendo tale e quale il ragionamento dei rappresentanti Anp in Italia, mettendo sullo stesso piano attentato terroristi e omicidi selettivi e auspicando un intervento internazionale. Se la politica estera deve essere un punto di forza per un leader politico, D'Alema ha ancora tanto su cui lavorare. Pubblichiamo integralmente il pezzo cosicchè il lettore possa farsi un'opinione precisa a riguardo.

RAMALLAH «They want to finish us... loro, gli israeliani, ci vogliono finire » . Yasser Arafat sorride con una smorfia penosa mentre lo dice e abbraccia Massimo D’Alema, Thorbjond Jagland e Luis Ayala, gli inviati dell’Internazionale socialista che per primi sono arrivati a Ramallah dopo l’uccisione di Ahmed Yassin. Intorno a lui soldati armati, muri sgretolati, carcasse di auto incendiate e una diffusa sensazione di assedio finale, di sfinimento. Ma il vecchio capo conserva dignità e lucidità politica. Condanna senza mezzi termini «gli attacchi contro i civili, sia palestinesi che israeliani» e di Sharon dice: «Non lo apprezzo, ma lo hanno eletto democraticamente i nostri fratelli di Israele e dunque lo rispetto così come loro ci devono rispettare». Yasser Arafat invia dunque un messaggio al suo avversario di sempre, ma anche ad Hamas che certamente prepara una rappresaglia di fronte alla quale egli stesso si mostra impotente.
Siete arrivati in questa terra mentre un missile israeliano uccideva lo sceicco Yassin e mentre i palestinesi si preparano a un’ennesima risposta di sangue: che fine ha fatto la pace in Medio Oriente, onorevole D’Alema?
«Se misuriamo questo momento con il blocco dei territori, il clima di paura, gli scontri ai confini del Libano, l’attesa della rappresaglia di Hamas, le voci che si rincorrono di nuovi assassinii da parte di Israele, allora mai come adesso la pace sembra lontana. Eppure, paradossalmente, la pace sarebbe a portata di mano».
Vuole spiegare questo paradosso?
«Tutti si rendono conto che la base di un accordo, cioè il principio dell’esistenza di due Stati, c’è ed è condivisa, eppure nessuno si siede intorno a un tavolo».
Ieri il capo di Stato maggiore della Difesa israeliano ha indicato anche Arafat tra i possibili obiettivi da colpire.
«Non è la prima volta. Ed è il segnale di quanto sia folle questa escalation militare, che rischia non soltanto un costo altissimo in vite umane per i palestinesi, ma anche la prospettiva di una insicurezza perenne per Israele. Essere circondati da una moltitudine di vicini che covano la vendetta, non rende sicuro nessuno».
Sembra un’escalation teorizzata e pianificata, d’altra parte lo stesso vice premier Olmert ha dichiarato a lei e alla delegazione dell’IS che il governo di Tel Aviv ormai "non ha più interlocutori": che significa?
«Significa che nella leadership israeliana attuale prevale la convinzione che si debba procedere in modo unilaterale, così come sta avvenendo per il ritiro da Gaza. Anche da parte palestinese si teorizza che con Sharon non si deve parlare. Ma questa idea di negare gli interlocutori, è catastrofica. La pace si ottiene quando i nemici si parlano e si riconoscono reciprocamente».
Tel Aviv solleva un problema di "credibilità" dell’Autorità palestinese.
«Gli israeliani hanno puntato fin qui a indebolire l’interlocutore palestinese, salvo poi a chiedergli di contrastare i terroristi dopo aver distrutto tutte le sue infrastrutture militari di sicurezza: mi sembra una posizione francamente contraddittoria. E’ inoltre evidente che il rafforzamento dell’Anp passa anche attraverso a un accordo tra le varie fazioni, ma Arafat oggi non ha la forza né il consenso per andare ad uno scontro militare contro gli estremisti, e l’unico effetto impensabile sarebbe quello di scatenare una guerra civile tra palestinesi in un regime di occupazione straniera. Quindi legittimazione reciproca, cessate il fuoco e ripresa del negoziato devono procedere insieme, altrimenti è il caos».
Perché la road-map, secondo lei, si è impantanata?
«Se da una parte si lanciano i missili e dall’altra le bombe umane, non c’è possibilità di sbocco: non c’è road-map, appunto, senza negoziato. In secondo luogo, non essendoci un’intesa sui contenuti finali dell’accordo, succede che le parti puntino più a conquistare una posizione di forza sul campo che non a procedere in una logica di concessioni reciproche. Perciò la mia opinione è che occorre rilanciare il negoziato tra le parti che ci sono oggi i palestinesi con Sharon, gli israeliani con Arafat e da subito aver chiare le condizioni relative allo status finale della regione, come hanno indicato gli accordi di Ginevra e il riconoscimento dei confini del ’67. Ma tutto questo è possibile solo se ci sarà una forte iniziativa internazionale, visto che il livello di incomprensione e di sfiducia reciproca non consente che vi sia alcuna soluzione che nasca da qui».
A proposito delle bombe e dei missili: sempre Olmert si dice convinto che il terrorismo in Europa non sia il frutto avvelenato della crisi in questa Regione, come commenta?
«Penso che sia del tutto sbagliato lo scenario di un inesorabile conflitto di civiltà, che si svolgerebbe tra i valori dell’Occidente ma non credo che all’Europa appartenga il cinismo di pianificare l’uccisione degli avversari e l’Islam radicale, come è sbagliato certo confondere Hamas con Al Qaeda. Questa concezione della guerra tra civiltà appartiene soprattutto alla destra, in Israele come negli Usa, e anziché indebolire il terrorismo si finisce per rafforzarlo. Noi dobbiamo invece dimostrare che il terrorismo non è il nemico dell’Occidente, ma nemico dell’umanità in modo che gli stessi popoli di religione musulmana si sentano impegnati contro di esso».
Che ruolo può svolgere l’Europa per una "soluzione giusta" tra Israele e Palestina?
«Innanzitutto cercando di attivare quel Quartetto Onu, Europa, Russia, Usa che ha elaborato la road-map e se ne è reso garante, perché le parti tornino ad incontrarsi e a rispettare i loro impegni. Ripeto: giungere a cessare il fuoco, anche con la presenza di osservatori internazionali sul campo, e accettare il negoziato».
Lei crede che con i democratici di Kerry alla Casa Bianca l’Unione europea potrà riallacciare un rapporto proficuo e alla pari con gli Usa?
«Naturalmente non vorrei che si aspettasse l’elezione di John Kerry per mettere mano a una situazione di crisi che è già esplosiva. Ma non c’è dubbio che se i democratici vincono le elezioni, la cooperazione fra Europa e Stati Uniti sarà più forte di quanto non sia stata con Bush».
Un’ultima cosa: come vede da qui le polemiche italiane sulla pace e sulla guerra?
«Purtroppo qui i problemi sono talmente rilevanti che certe polemiche italiane appaiono nella loro reale dimensione, cioè piccole».
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