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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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'Dove gli ebrei non ci sono', di Masha Gessen 07/10/2021
Dove gli ebrei non ci sono
Masha Gessen
Traduzione di Rosanella Volponi
Giuntina euro 18

Dove gli ebrei non ci sono - Casa Editrice Giuntina

Avvincente reportage giornalistico oltre che saggio storico ben documentato, l’ultimo lavoro di Masha Gessen, giornalista russo-americana, traduttrice e attivista per i diritti delle persone LGBT, è in libreria in questi giorni per i tipi di Giuntina con il titolo “Dove gli ebrei non ci sono”, nella brillante traduzione di Rosanella Volponi, Pubblicato in America nel 2016 è la storia personale e collettiva di un’utopia: quella di uno stato ebraico nell’Urss, il Birobidžan. L’originale immagine di copertina, un poster ideato nell’Unione Sovietica del 1929 dall’Ozet - il Comitato per l’insediamento dei lavoratori ebrei della terra - con lo scopo di pubblicizzare una lotteria per la raccolta fondi a sostegno della migrazione ebraica nel Birobidžan, introduce il lettore al cuore del libro “la storia triste e assurda del Birobidžan, la regione autonoma ebraica nella Russia di Stalin”.

In parte è una storia personale dedicata ai genitori “che hanno avuto il coraggio di emigrare” perché sin dalle prime pagine l’autrice, raccontando della decisione a lungo dibattuta di lasciare l’Unione Sovietica negli anni ’70, solleva riflessioni importanti: “Quando gli ebrei dovrebbero stare fermi e quando dovrebbero fuggire? Come sappiamo dove saremo al sicuro? L’incapacità di partire può essere un tradimento della vita stessa?” “Dove gli ebrei non ci sono” è anche una storia collettiva perché fotografa uno dei periodi storici più bui per il popolo ebraico e una regione, il Birobidžan, situata all’estremo limite della Russia asiatica, al confine con la Cina, teatro di un esperimento fallito del comunismo sovietico: per risolvere il problema dell’antisemitismo presente in Urss il regime sovietico volle creare un luogo in cui far confluire tutti gli ebrei russi, uno spazio che si configurava, inevitabilmente, come un grande ghetto: era un territorio inospitale, paludoso con inverni rigidi ed estati torride. “Alla fine degli anni ’20 e nei primi anni ’30 decine di migliaia di ebrei si trasferirono nel Birobidžan, cacciati dagli shtetlach dalla povertà, dalla fame e dalla paura. Erano stati indotti ad andarci, accolti con entusiasmo al loro arrivo, oggetto di racconti appassionati da parte di un piccolo gruppo di intellettuali che immaginavano di costruire un paese come nessun altro al mondo: …un luogo dove gli ebrei non avevano niente da temere se non il clima rigido e la tigre siberiana”. Immaginavano di trasformare l’yiddish nella lingua universale dell’ebraismo secolare, la lingua della letteratura, del teatro e dell’insegnamento che avrebbe formato la base di una cultura ebraica del XX secolo, dopo l’oppressione. Sono un piccolo gruppo di intellettuali di cui Gessen ci racconta nel dettaglio le drammatiche vicissitudini che “lavorarono duramente perché così fosse”.

Tuttavia, il breve periodo della costruzione dello Stato si concluse a metà degli anni ’30 con una serie di arresti e purghe di membri del partito Comunista e dell’élite culturale. Del progetto Birobidžan non si seppe più nulla fino alla Seconda Guerra Mondiale quando la Regione autonoma ebraica, come allora veniva chiamata, accolse un nuovo flusso di ebrei: molti di loro avevano perso le famiglie nella Shoah e l’unica speranza che ancora li animava era costruirsi una casa nel Birobidžan. Alla fine degli anni ’40 una nuova ondata di arresti portò in prigione i poeti di lingua yiddish ormai di mezz’età, ultimi difensori di una identità culturale ebraica che andava scomparendo. Ormai anziani quei poeti tornarono nel Birobidžan quasi dieci anni più tardi. Erano loro – spiega Gessen – che alla fine degli anni ’70 pubblicavano l’unico giornale in lingua yiddish dell’Unione Sovietica. Con la morte dell’ultimo poeta negli anni ’80 il ricordo del sogno che non si era mai realizzato continuava a vivere nelle loro opere. Dopo essere emigrata con la famiglia negli Stati Uniti nel 1981, Masha Gessen torna a Mosca come giornalista dieci anni più tardi per raccontare la nuova Russia emersa dalla dissoluzione dell’Urss e qui, insieme alla sua partner, cresce i tre figli. Nel 2013 Gessen è però costretta a lasciare il suo paese a causa delle politiche discriminatorie del Cremlino nei confronti della comunità gay. E’a New York che l’autrice porta a termine il libro “sul Birobidžan, sul concetto di casa e sul sapere quando partire”.

Il saggio si conclude con il racconto del viaggio compiuto da Masha Gessen nel 2009 nel Birobidžan, una “improbabile meta turistica” pur “graziosa in molti luoghi”. Qui i discendenti degli ultimi ebrei che parlano yiddish trovano in ripostigli nascosti nelle loro case dei libri in yiddish che scelgono di donare alla biblioteca Sholem Aleichem, ma ormai nessuno è in grado di leggerli. Sconcertante è la visita al museo ebraico dove non si trova alcun riferimento alla Shoah e agli archivi di Stato di Birobidžan dove la scrittrice non può consultare i documenti relativi alla conferenza del partito del ’49 che inauguravano le purghe in quanto contengono “informazioni riservate”. Autrice di saggi importanti tra cui “Putin. L’uomo senza volto” (Bompiani, 2012) e “Il futuro è storia” (Sellerio, 2019), un racconto dell’era post-sovietica in cui cerca di comprendere la realtà che la circonda attraverso la vita quotidiana di un gruppo di individui, con quest’ultimo straordinario reportage Masha Gessen si conferma una delle voci più impegnate e coraggiose della scena internazionale.


Giorgia Greco

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