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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Max Mannheimer - Una speranza ostinata - 26/09/2016

Una speranza ostinata
Max Mannheimer
Prefazione di Paolo Rumiz
ADD Editore euro 13

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La Shoah nel diario che il sopravvissuto ha scritto per la figlia: quando l’orrore diviene troppo, l’autore dispensa un grammo di fiducia residua nell’umanità

Ho letto Una speranza ostinata, il diario della prigionia di Max Mannheimer, il giorno dopo avere visitato Auschwitz. Sebbene il flusso massiccio e costante di turisti abbia sinistramente «normalizzato» l’impatto con il campo di concentramento, e per quanti libri, film e documentari ci abbiano preparato alla mostruosità del luogo, la veduta di Birkenau risulta ancora spiazzante. Per la vastità. Per l’organizzazione gelida degli spazi e delle procedure, che le guide illustrano con una compassata neutralità. Il campo come una possente macchina industriale (percorsi ottimizzati, quarantena, smaltimento dei corpi, riciclo di tutta la materia, organica e non): il sito archeologico che più di ogni altro al mondo testimonia quanto lucida possa essere la devianza dell’essere umano. Ritrovo la geografia identica di Auschwitz nelle memorie di Mannheimer. La vista recente della campagna polacca sezionata dal filo spinato amplifica l’impressione delle pagine, e viceversa. Mannheimer redige una cronaca asciutta eppure partecipata della propria odissea dentro la Shoah.

Un viaggio spettrale attraverso alcuni dei luoghi più emblematici dell’Olocausto: da Neutitschein a Ungarisch-Brod a Theresienstadt; poi a bordo dei convogli fino ad Auschwitz-Birkenau; quindi Auschwitz I, le macerie del ghetto di Varsavia, la marcia della morte fino a Dachau, e ancora più a ovest per sfuggire alle truppe degli alleati. Ma quello di Mannheimer è un viaggio dove la sofferenza non pesa mai al punto di schiacciarti, di farti distogliere gli occhi. Anzi, proprio come anticipa il titolo, esiste nel libro «una speranza ostinata». Mannheimer riesce a dosare il dolore che ha patito, conscio del fatto che esso è pressoché insostenibile per noi «altri». E quando l’orrore diviene troppo dispensa un grammo di fiducia residua nell’umanità, sotto forma di un’immagine luminosa, come quella della donna che non rinuncia a «imbellettarsi» mentre l’automobile che potrebbe salvarle la vita è in attesa fuori. La sveltezza e la grazia del testo, scritto negli anni Sessanta ma tradotto solo adesso in italiano (e pubblicato da Add Editore), sono probabilmente una conseguenza della sua genesi particolare. Nel dicembre 1964 Mannheimer viene ricoverato in un ospedale per un intervento alla mascella. Il referto istologico gli viene consegnato in ritardo e lui si convince di essere prossimo alla fine. Freneticamente butta giù il diario della propria giovinezza e della prigionia per consegnarlo in tempo alla figlia Eva, alla quale non ha mai avuto la forza di raccontare.

In questo senso, Una speranza ostinata è il doppio speculare di un altro ricordo della Shoah apparso di recente: E tu non sei tornato (Bollati Boringhieri), la lettera commovente che Marceline Loridan-Ivens ha indirizzato al padre perso nello stesso campo di concentramento. Sono gli ultimi dispacci da un mondo, quello dei sopravvissuti, che è in procinto di scomparire. Un nuovo passaggio cruciale della Shoah: l’inizio del tempo infinito senza testimoni diretti, un tempo insidioso nel quale l’atto di tramandare diverrà sempre più faticoso.

Abbiamo a disposizione una letteratura impareggiabile sullo sterminio — Se questo è un uomo sopra tutti, Il diario di Anne Frank e Necropoli, solo per citarne alcuni ovvi —, alla quale Una speranza ostinata di Mannheimer va ad aggiungersi. Con una serie di caratteristiche specifiche che rendono tuttavia il libro particolarmente degno di attenzione: il fatto di essere breve (un centinaio di pagine appena), di essere scritto in una lingua tersa e semplice che non ostacola mai l’accesso al contenuto e, non ultimo, di apparire in un’edizione curata minuziosamente, dalla prefazione di Paolo Rumiz, alle mappe, alle note esplicative che danno poco per scontato. Questo testo rappresenta così un’occasione nuova e preziosa soprattutto per gli insegnanti delle scuole medie, inferiori e superiori. Nel restituire una vicenda personale toccante, nel mostrare come l’Europa sia scivolata lungo «un piano inclinato» dentro l’Olocausto, fornisce non soltanto un dizionario minimo dell’abominio nazista (che cosa significa Gestapo, «notte dei cristalli», Kapo e Untermensch), ma anche un dizionario minimo di cultura ebraica (il Bar Mitzvah, la kippah, la cucina kosher). Senza il possesso di entrambi è difatti impensabile che i ragazzi si avvicinino oggi a un intervallo buio di storia che a molti di loro appare remoto e surreale.

Forse incalzato dal tempo che credeva mancargli, oppure per cautela verso i sentimenti della figlia, Max Mannheimer riesce a parlare del male supremo senza rancore né tormento. Didatticamente. Nondimeno, il suo diario ci lascia addosso la stessa inquietudine di ogni scritto sulla Shoah, la stessa che ci si porta via dopo avere visitato ciò che resta di Auschwitz, e proprio quella che è essenziale trasmettere a ogni allievo di ogni scuola. Paolo Rumiz la descrive così: la sensazione «che tutto questo — in assenza di vigilanza — riguardi tutti noi e sia di conseguenza destinato a ripetersi».

Paolo Giordano - Corriere della Sera


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