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Ben Cohen
Antisemitismo & Medio Oriente
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“Da ogni piano, da ogni finestra”: ricordando la rivolta del Ghetto di Varsavia 16/04/2023
“Da ogni piano, da ogni finestra”: ricordando la rivolta del Ghetto di Varsavia
Analisi di Ben Cohen

(traduzione di Yehudit Weisz)


Rivolta del ghetto di Varsavia - Wikipedia

“Allora successe qualcosa senza precedenti. Apparvero tre ufficiali con delle mitragliette abbassate. Indossavano delle coccarde bianche nelle asole, erano degli emissari. Desideravano negoziare con il Comando di Area. Proposero una tregua di 15 minuti per rimuovere i morti e i feriti. Erano anche pronti a promettere a tutti gli abitanti un'evacuazione ordinata nei campi di lavoro di Poniatow e Trawniki e di lasciare che portassero con sé tutti i loro averi. Noi gli abbiamo risposto sparando. Ogni casa rimase una fortezza nemica. Da ogni piano, da ogni finestra, i proiettili cercavano gli odiati elmetti tedeschi, gli odiati cuori tedeschi.”
Ci sono molte storie toccanti dell'insurrezione del ghetto di Varsavia dell'aprile 1943, il cui 80° anniversario si celebra questa settimana, ma il passaggio sopra citato è probabilmente quello che mi ha lasciato l'impressione più profonda.

Lo lessi per la prima volta molti anni fa, quando presi in mano una copia di “The Ghetto Fights”(in italiano “Il ghetto di Varsavia lotta” ed. Giuntina), un libro di memorie di Marek Edelman, che era un leader del Bund, il partito socialista ebraico prebellico, e che partecipò alla rivolta contro gli occupanti nazisti. Edelman descrisse le conseguenze dell'epica battaglia iniziata il 19 aprile del 1943, quando i tedeschi tentarono di liquidare il ghetto mediante colonne di truppe, mezzi corazzati e carri armati, e con pezzi di artiglieria pesante posti fuori dalle sue mura. Ma i combattenti della resistenza ebraica all'interno avevano anticipato il loro arrivo; nel combattimento che ne seguì, i tedeschi rimasero intrappolati all'incrocio tra le vie Mila e Zamenhofa, con il loro percorso, previsto per una ritirata sicura, fatalmente esposto alle armi brandite dai combattenti della ZOB e della ZZW, le due organizzazioni militari ebraiche nel ghetto. “Non un solo tedesco lasciò quest’area vivo”, scrisse Edelman.  Nel contempo, altre unità tedesche furono bloccate nelle strade Nalewki e Gesia. “Il sangue tedesco inondava la strada,” ha ricordato Edelman. “Le ambulanze tedesche trasportavano continuamente i loro feriti nella piazzetta vicino agli edifici della Comunità. Qui i feriti giacevano in fila sul marciapiede in attesa del loro turno per essere ricoverati in ospedale.”

Alle 14:00 dello stesso giorno, i combattenti ebrei si resero conto di aver vinto una battaglia chiave contro i loro oppressori. I tedeschi tornarono alle mura del ghetto 24 ore dopo e furono nuovamente accolti da una grandine di proiettili e da attacchi mortali usando quelli che ora chiameremmo ordigni esplosivi improvvisati (IED).
Fu a questo punto che i tre ufficiali tedeschi, descritti da Edelman, vennero a mendicare un cessate il fuoco, per poter raccogliere i loro morti e feriti. In quel preciso momento, il ruolo dell'ebreo e del tedesco, dell'“Untermensch” e dell'“ariano” – cementato nel decennio precedente dalla crescente potenza del Terzo Reich – si era completamente capovolto.

Ogni proiettile sparato contro i tedeschi era una risposta al grottesco slogan scolpito sui cancelli di Auschwitz, “Arbeit Macht Frei” (“Il lavoro rende liberi”).
E ogni tedesco che cadeva nel tentativo di soccorrere i suoi compagni feriti era un segno che  l’appartenenza al genere umano  degli ebrei non si era spenta, che loro erano persone che agivano e che prendevano decisioni reali, inclusa quella di negare al nemico ogni forma di pietà o di rispetto nel pieno del combattimento. L’energia e l'intensità mostrate dai 700 giovani combattenti ebrei scarsamente armati riflettevano la percezione  nel profondo dei loro cuori, che la battaglia per il ghetto non era in definitiva quella in cui avrebbero prevalso.

“Sapevamo di non poter vincere”, ha scritto Mira Fuchrer, appena 21enne, una delle donne combattenti che provenivano dai ranghi dell'organizzazione laburista sionista Hashomer Hatzair . "Abbiamo combattuto per poter morire con dignità.”  Per il fidanzato della Fuchrer, il 22enne comandante della ZOB, Mordechai Anielewicz, il solo fatto della rivolta fu un pungolo per gli ebrei d'Europa nel loro momento più buio, e quindi di per sé una vittoria.  "Il sogno della mia vita è diventato realtà”, ha riflettuto al culmine del combattimento. “L'autodifesa nel ghetto sarà stata una realtà. La resistenza armata ebraica e la vendetta sono fatti reali! Sono stato testimone dei magnifici ed eroici combattimenti dei combattenti ebrei.”

Come altri aspetti della Shoah e della Seconda Guerra Mondiale più in generale, con le ulteriori ricerche nel tempo, i dettagli della rivolta del ghetto di Varsavia si sono arricchiti e complicati. Criticamente, grazie in gran parte al lavoro scrupoloso del defunto Moshe Arens, un ex ministro del gabinetto israeliano, ora sappiamo che non c'era solo uno - come si presumeva per diversi decenni - ma due gruppi militari nel ghetto. Oltre alla Jewish Fighting Organization (ZOB), che attirava sostenitori del Bund non sionista e sionisti di sinistra come Dror e Hashomer Hatzair, c'era la Jewish Military Union (ZZW), comandata da Pawel Frenkel e radicata nel Movimento sionista revisionista Betar di Vladimir Jabotinsky.

Il divario politico tra queste due organizzazioni era inequivocabile, così come lo era la spaccatura interna alla ZOB tra quelli di sinistra che sostenevano la creazione di uno Stato ebraico e quelli che vedevano il sionismo come un'inutile allontanamento  dalla lotta di classe proletaria (ma non, dovrei sottolineare, come progetto “razzista”, “colonialista” alla maniera di coloro che oggi si definiscono antisionisti).
Eppure l'imperativo di sconfiggere i tedeschi era schiacciante, e così ZOB e ZZW, betarnik e bundisti allo stesso modo, hanno stretto un'alleanza strategica. La ZOB ha distribuito i suoi combattenti in diversi punti del ghetto mentre la ZZW ha concentrato le sue forze in piazza Muranowska, sventolando dal suo quartier generale una bandiera sionista bianca e blu accanto a una polacca, mentre respingeva l'avanzata tedesca. I feroci combattimenti urbani durarono quasi un mese prima che i tedeschi potessero dichiarare la vittoria.

“L'ex quartiere ebraico di Varsavia non esiste più”, annunciò il comandante delle SS Jurgen Stroop in un cablogramma del 16 maggio 1943 ai suoi superiori a Berlino. Alla fine, il ghetto fu raso al suolo e la maggior parte dei combattenti sopravvissuti si suicidò piuttosto che affrontare la cattura e l'umiliazione per mano dei tedeschi. I 42.000 ebrei che ancora rimanevano nel ghetto due anni dopo che i tedeschi avevano iniziato la deportazione di massa della comunità, furono trasportati nel campo di concentramento di Majdanek o nei campi di lavoro di Poniatow e Trawnicki. La maggior parte di loro fu assassinata in quei luoghi durante un'operazione di fucilazioni della durata di due giorni nel novembre del 1943.   
                                                                                                                 
“Non dire mai che stai percorrendo l'ultima strada / Anche se i cieli plumbei oscurano i giorni blu”, cantavano i combattenti del ghetto. “L'ora che abbiamo tanto desiderato verrà ancora / I nostri passi risuoneranno – Esistiamo! Ottant'anni dopo, mentre i loro discendenti combattono contro una recrudescenza dell'antisemitismo (sebbene in circostanze molto più favorevoli - l'esistenza di uno Stato ebraico, pieni diritti civili e politici nella maggior parte dei Paesi in cui vivono gli ebrei) non dovremmo solo desiderare che la loro memoria rimanga un benedizione. Ma che essa rafforzi anche noi.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate

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