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Diego Gabutti
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Nel labirinto della Stasi 02/06/2021
Nel labirinto della Stasi
Recensione di Diego Gabutti

Labirinto Stasi. Vite prigioniere negli archivi della Germania Est -  Gianluca Falanga - Libro - Feltrinelli - Storie | IBS
Gianluca Falanga, Labirinto Stasi. Vite prigioniere negli archivi della Germania Est, Feltrinelli 2021, pp. 416, 22,00 euro, eBook 12,99 euro.

«Auschwitz delle anime», come la chiamò Jürgen Fuchs, psichiatra e dissidente, la DDR non fu una semplice satrapia leninista. Mentre gli altri franchising, aperti in tutta l’Europa orientale su licenza del Soviet supremo, esercitavano una tradizionale tirannia di tipo stalinista, fondata sulla ferocia della repressione e sulla dimensione kolossal dell’annientamento fisico dei nemici politici e «di classe» della nomenklatura, la Germania dell’est lavorava all’annientamento spirituale non soltanto dei dissidenti ma dell’intera popolazione, amici e nemici senza distinzione. Tutti, vittime e carnefici, dovevano essere svuotati, spolpati della propria identità umana e ridotti a zombie, animali da circo, ingranaggi della dittatura. Attraverso la sua polizia politica, la Stasi, che reclutava nei propri ranghi praticamente l’intera cittadinanza nel tentativo di trasformare ciascuno nel delatore d’ogni altro, la DDR esercitava un controllo capillare, dettagliato, sui suoi cittadini. Compito della Stasi era praticare la lobotomia all’intera nazione. Niente eccidi di massa, come sotto Hitler e Stalin, ma un’ecatombe di anime.

Anni fa, poco dopo il tracollo del comunismo europeo, la moglie albanese d’un mio amico raccontava la storia d’un suo zio o cugino finito in un campo di rieducazione perché, durante una perquisizione, gli era stata trovata in casa una copia di Topolino, arrivata chissà come in Abania dall’Italia. Questo per dire che ci sono due modi di raccontare l’horror distopico del Novecento. C’è il Terzo Reich, c’è l’Unione sovietica, c’è la «Kampuchea democratica» di Pol Pot. Ci sono cioè i grandi numeri: il Gulag, Mathausen e la soluzione finale, la deportazione d’interi popoli, Pol Pot, la carestia pilotatea in Ucraina, la Rivoluzione culturale in Cina, i milioni d’assassinati. E c’è Topolino.

C’è Topolino, e c’è la lettura illecita di 1984, che provocò la rovina di Baldur, un cittadino della DDR che per averlo letto e commentato con punti esclamativi e note a margine, finì per anni in galera, come racconta lo storico Gianluca Falanga in Labirinto Stasi. (In Italia, negli stessi anni in cui nella Germania dell’est Baldur era condannato in quanto lettore di un’«opera antisocialista», da noi il giornale dei comunisti italiani, l’Unità, celebrava 1984 come romanzo «antifascista», nel quale secondo la nostra intellighenzia organica non si parlava di Baffone ma di Hitler, non del socialismo ma del capitalismo). C’è Topolino, dicevamo, e c’è Orwell. Poi ci sono le «barzellette politiche», come racconta sempre Falanga citando la testimonianza d’uno dei dissidenti di cui esplora la storia in Labirinto Stasi: «Un suo compagno di cella, che aveva lavorato al tribunale, raccontava che fino agli anni sessanta almeno un centinaio di persone erano state processate e condannate per aver raccontato una barzelletta politica. Poiché all’epoca i processi si facevano ancora col pubblico in sala, si era imposta la seguente procedura: la battuta incriminata non doveva essere letta, per non correre il rischio che qualcuno scoppiasse a ridere in aula».

È difficile dire cosa sia più sconvolgente tra la lettura di Arcipelago Gulag – col suo racconto d’interminabili «fiumane» di zek (i prigionieri del Gulag) e di vittime innumerevoli della fame e dei plotoni d’esecuzione – e la storia del lettore di Topolino, condannato al campo di rieducazione per essere stato corrotto da Paperoga, da Clarabella e Nonna Papera. 1984, quando fu scritto, nel 1948, non era il fotocolor dell’Unione sovietica ma la sua allegoria; la DDR, pochi anni più tardi, trasferì quest’allegoria nella realtà, e fu come se svegliandosi da un incubo, la distopia hitleriana, il sognatore aprisse gli occhi e scoprisse che l’incubo continuava sub specie delazione universale, guerra alla cultura, Shoah delle anime, statue di Stalin alte trenta metri. Nessuno, a Mosca, aveva mai preso davvero sul serio il proposito di rimodellare a bastonate l’umanità: il bastone serviva a tenere i cittadini alla catena, come cani umani. A Berlino est questo proposito fu preso invece orrendamente sul serio: il bastone tedesco-orientale era il bisturi che asportava il tumore dell’identità umana dal corpo d’ogni singolo tedesco. Proprio in questo consisteva, del resto, il programma comunista: nell’«annullamento» (come scrisse una volta, compiacendosene, il fondatore del Pc italiano Amadeo Bordiga) «della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti e attore della storia umana».

Nella DDR il comunismo fu sostanzialmente realizzato: l’eguaglianza perfetta, tutti vittime, tutti aguzzini, nessuno responsabile, l’Essere al bando, il Nulla Über Alles, guai a chi ride, morte allo zio Paperone, rispetto per il Grande fratello. «A rifletterci con freddezza, ora che il fantasma era svaporato» – riflette uno dei dissidenti di Labirinto Stasi – «quell’idea balorda, che aveva conquistato mezzo mondo, acceso gli animi di milioni di uomini, causato la morte di altrettanti innocenti, appare adesso nella sua spietata banalità: l’infantile visione di un’istanza superiore, capace di neutralizzare rischi e vicissitudini della vita, di garantire a tutti la felicità universale, a patto che si comprenda la necessità di subordinarvisi senza riserve». Fu un capolavoro di chirurgia spirituale: la repressione, l’ansia che prima o poi sarebbero venuti a prenderti (perché avevi raccontato una barzelletta, perché avevi letto il giornaletto sbagliato, perché t’eri fidato d’un amico o d’un collega d’ufficio, di tua moglie o di tuo marito) e «il terrore di vedersi portare via un padre, un figlio, un fratello, aveva forgiato la mentalità dei cittadini della Repubblica democratica tedesca fin dall’immediato dopoguerra, quando decine di migliaia di famiglie erano appena uscite dal travaglio del nazismo e della guerra, degli stupri di massa, dei saccheggi e della brutale repressione sovietica». Era l’inferno, come una volta lo descrisse Aleksander Wat, ex comunista, poeta e futurista polacco: «E io vidi il diavolo, sì, [nel Gulag io vidi] il diavolo con gli zoccoli, lo vidi davvero, doveva essere un’allucinazione dovuta alla fame, ma non solo lo vidi, sentii quasi l’odore dello zolfo. Il mio cervello stava vorticando a una velocità folle, ed eccolo là, si era presentato: il diavolo nella storia».

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Diego Gabutti

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