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Diego Gabutti
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LGC, la Lingua del Governo del Cambiamento 05/08/2019
LGC, la Lingua del Governo del Cambiamento
Commento di Diego Gabutti

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Il tweet di Salvini

Oggi il 40 per cento degl’italiani votanti inneggia a chi urla «zingaraccia». Vero che la rom in questione si è guadagnata il peggiorativo augurando al signor ministro una pallottola in testa (e non è bello, non si fa). Ma chi plaude alla «zingaraccia» presto potrebbe inneggiare (se già non lo fa) anche a chi mostra il pugno ai «negracci» e sbraita contro i «demoplutogiudeacci». «Tedescacci» e «francesacci» sono già da un pezzo sotto tiro, e una parte minoritaria ma cospicua dell’elettorato stravede per chi gonfia le vene del collo ogni volta che sull’orizzonte ottico appare un «radicalsciccaccio» (a sinistra di Casa Pound lo siamo tutti). È l’Italia che si porta una mano al cuore e sculetta a ritmo di samba ascoltando l’Inno di Mameli a torso nudo negli stabilimenti balneari di Milano Marittima popolati di troniste, cacciatori d’autografi, troupe televisive compiacenti e deejay luccicosi d’olio solare (che invece di spassarsela in spiaggia con figli e morose, dovrebbero piuttosto «tornare a bordo del Viminale, cazzo»). Eppure, il linguaggio aggressivo e francamente razzista delle istituzioni in brachette da mare, che ovviamente sgomenta un po’, non è ancora il peggio (anche se chiunque abbia dato un’occhiata ai diari di Victor Klemperer, in particolare a LTI. La lingua del Terzo Reich, Giuntina 2011, prova un brivido pensando che ci vuol poco a imporre una lingua che «esprime solo un lato della natura umana» e che, «come un pugno assestato a mani nude, colpisce direttamente la ragione di chi ascolta, con l’intenzione di soggiogarla»).

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La copertina del libro di Victor Klemperer (Giuntina ed.)


Non è il peggio nemmeno la location balneare in cui le sorti del paese vengono dibattute sotto l’ombrellone e giocando a volano (o bordeggiando sulle moto di mare). Quanti se ne sono visti, dopotutto, di «governi balneari» negli ultimi quaranta-cinquant’anni? Quelli erano «balneari» in senso figurato; questo in senso proprio. Che differenza potrà mai fare? Non è il peggio neanche la versione techno (se si dice così, e ne dubito) dell’inno nazionale. No, il peggio è che non c’è quasi più nessuno – non un maître à penser, tanto meno un politico – che manifesti la dovuta nostalgia non diciamo per un assetto vagamente liberale del paese ma anche soltanto per la buona educazione. Nessuno, ahinoi, prova imbarazzo per le derive illiberali e circensi della politica. Non è la prima volta che succede, naturalmente. È dalla sinistra stalinista d’antan, dai suoi epigoni antiberlusconiani e antirenziani, che la moderna destra populista-sovranista ha imparato a disprezzare l’informazione maldisposta («vai a fotografare bambini sulla spiaggia, se ti piace tanto») e a parlare la lingua che esprime esclusivamente il lato peggiore della natura umana («zingaraccia, preparati alla ruspa», «Battisti marcisca in carcere fino alla fine dei suoi giorni», «lavori forzati a vita ai due stronzi che hanno ucciso il carabiniere Cerciello»). Per quanto iperbolico, non c’è «appello all’odio» – com’è chiamata con espressione moscia la furia belluina da social network – che possa seriamente rivaleggiare con gli slogan trucidi della sinistra all’antica italiana: «fascisti e borghesi, ancora pochi mesi», «carabiniere, sbirro maledetto, te l’accendiamo noi la fiamma sul berretto», «poliziotto fai fagotto, arriva la P38». È da questi lombi – cambiando di segno, e moderandosi un po’ lungo il tragitto – che nasce la lingua sovranista. Di nuovo, rispetto al modello originario, c’è il fatto che questo vernacolo populista viene parlato dal 40 per cento degli elettori votanti (meno di metà della metà, e questo ci consola, ma non abbastanza, degl’italiani con diritto di voto). Negli anni di Togliatti, di Lotta continua, di Berlinguer, dell’Autonomia operaia e delle Feste dell’Unità solo pochi dementi parlavano come gli editorialisti del Manifesto o come le terze pagine di Repubblica. Si rideva, persino a sinistra, di chi lo faceva. Oggi, invece, va come nella Berlino anni trenta di Victor Kemplerer, quando «la LTI, o Lingua del Terzo Reich, ti assaliva dalle pagine di libri e giornali, e nelle brevi conversazioni durante le tormentose soste al ristorante: i bravi borghesi la parlavano tutti, senza eccezione». È una lingua semplice, da osteria, che s’impara in fretta e che subito risuona dappertutto. Zingaracci, magrebinacci, giornalistacci, ebreacci. Intendiamoci: siamo sopravvissuti alle Brigate rosse e all’autunno caldo. Sopravvivremo anche a questo. Ma c’è un prezzo da pagare. Sempre lo stesso: l’indifferenza di chi, pur conoscendo le buone maniere, non le fa valere e lascia correre mentre la lingua involgarisce e la politica anche peggio.


Diego Gabutti
Già collaboratore del Giornale (di Indro Montanelli), di Sette (Corriere della Sera), e di numerose testate giornalistiche, corsivista e commentatore di Italia Oggi, direttore responsabile della rivista n+1 e, tra i suoi libri: Un’avventura di Amadeo Bordiga (Longanesi,1982), C’era una volta in America, un saggio-intervista-romanzo sul cinema di Sergio Leone (Rizzoli, 1984, e Milieu, 2015); Millennium. Da Erik il Rosso al cyberspazio. Avventure filosofiche e letterarie degli ultimi dieci secoli (Rubbettino, 2003). Cospiratori e poeti, dalla Comune di Parigi al Maggio'68" (2018 Neri Pozza ed.)


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