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Stefano Magni
USA
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Kerry-Israele-Anp:iniziano i colloqui a Washington 21/07/2013

Kerry-Israele-Anp:iniziano i colloqui a Washington
Analisi di Stefano Magni

 

John Kerry,Tzipi Livni , Saeb Erekat

In un’America bombardata dalle notizie sul fallimento di Detroit, sul caso razziale Trayvon Martin e sulla caccia al “gola profonda” Edward Snowden, finalmente arriva in prima pagina qualcosa di spettacolare e positivo: John Kerry, segretario di Stato, è riuscito nella missione impossibile di far sedere attorno al tavolo, a Washington DC, i palestinesi e gli israeliani.
La sua “shuttle diplomacy”, avanti e indietro furiosamente fra Gerusalemme, Ramallah e Amman, è stata finalmente coronata da successo, laddove Hillary Clinton non aveva nemmeno osato agire.
La notizia è “spettacolare” nel senso letterale del termine: dà spettacolo, è necessariamente riportata da tutti i giornali, segna un record, sarà ricordata nei libri di storia.
“Spettacolare”, tuttavia, non è necessariamente sinonimo di “successo”. Benché sia stato compiuto un primo passo (un incontro diretto fra le due parti), la storia dei numerosi fallimenti del processo di pace mediorientale impone una grandissima prudenza. Ci sono molti elementi che fanno ancora presagire un insuccesso.

Vediamo quali sono i principali. I leader: sia Mahmoud Abbas che Benjamin Netanyahu si trovano in un momento molto particolare della loro leadership. Il primo ha avuto un’occasione più unica che rara di agire, perché il suo principale partito di opposizione (Hamas) è entrato in una profonda crisi politica. Non solo, a causa della guerra in Siria (che contrappone sciiti e sunniti), si sta separando dal suo sponsor iraniano, ma con la caduta del presidente Morsi in Egitto, si ritrova nuovamente isolato entro le mura di Gaza.
La prima reazione di Hamas è di rabbia: non è un caso che i lanci di razzi contro Israele stiano di nuovo aumentando. Ma questa volta è un segno di profonda debolezza. Un partito islamista forte non avrebbe reso possibile un accordo su nuovi colloqui fra l’Autorità Palestinese e Israele.
Ora, invece, Abu Mazen sente di avere, evidentemente, mani molto più libere. Non è detto che questa condizione duri, però. Il rapporto di forze fra Autorità Palestinese e Hamas dipende, in gran parte, da eventi esterni alla Palestina. Una vittoria di islamisti sunniti in Siria, o un ritorno di fiamma del terrorismo in Egitto potrebbero ribaltare di nuovo la situazione: se Abbas dovesse temere di nuovo il terrorismo interno, o lo scoppio di una “Intrafada” (guerra civile palestinese) manderebbe all’aria il dialogo.

Benjamin Netanyahu, invece, accetta di dialogare sui confini del suo Paese e sulla soluzione “due popoli e due Stati”, ma la sua testa è altrove. Il suo più recente e famoso Tweet è: “La volontà di vittoria e la capacità di spezzare il nemico, instillandogli la paura della morte nel momento decisivo: così si vincono le battaglie”. Una frase tutt’altro che rassicurante, che non si riferisce certo al processo di pace. Nel 99% dei casi si riferisce all’Iran. Il premier israeliano lo ha fatto capire anche nella sua intervista rilasciata alla Cbs: “Non aspetteremo finché sarà troppo tardi (…) I nostri occhi sono fissi sull’Iran. Devono sapere che noi facciamo sul serio”.
Se gli “occhi sono fissi sull’Iran”, evidentemente quello palestinese è un problema di secondo ordine.
Quando Netanyahu tornerà a concentrarsi su quel che c’è al di qua del Giordano (invece che su ciò che resta al di là del Golfo Persico) non è detto che tenga dritta la barra del negoziato.

Gli oppositori: sia Israele che la Palestina non sono governati da un solo uomo. Israele è una democrazia, la Palestina no, ma comunque Abbas necessita del consenso di almeno parte dei suoi oppositori interni per evitare una guerra civile.
La notizia data da Kerry, sulla ripresa del negoziato diretto, ha colto di sorpresa non pochi alti funzionari palestinesi. Fino alla sera prima, a Ramallah si chiedeva soprattutto di tornare ai negoziati solo dopo che Israele avesse accettato come precondizioni la liberazione dei prigionieri palestinesi, il riconoscimento dei nuovi confini sulla base della linea armistiziale pre-1967 e il congelamento immediato di tutti i piani edilizi ebraici (compresi quelli a Gerusalemme).
Non pochi sono rimasti sconcertati nell’apprendere che queste pre-condizioni, fatto salva la liberazione dei prigionieri, sono venute a mancare.
Saeb Erekat sarà di nuovo il negoziatore palestinese e andrà a Washington a trattare, ma  altri leader gli stanno scavando il terreno sotto i piedi. L’ex candidato presidenziale Mustafa Barghouti, ha già dichiarato che si opporrà ad ogni negoziato, “senza chiari e specifici termini di riferimento” (leggasi: senza precondizioni).
Ha poi chiarito che non si parlerà nemmeno di soluzioni, se prima non verranno accettati i confini del 1967, compresa la divisione di Gerusalemme.
Hamas, come è ovvio, ha avuto la reazione più dura, definendo il ritorno al negoziato come un modo di “Soccombere all’estorsione americana e obbedire agli ordini israeliani”.
Il portavoce del partito islamico, Fawzi Barhoum, ha dichiarato che la decisione dell’Autorità Palestinese è “un dono fatto all’occupazione del governo estremista (israeliano, ndr) e una sconfitta per il popolo palestinese”.
Altri partiti minori di opposizione, come la Jihad Islamica, il Partito del Popolo (comunisti) e gli storici Fronte per la Liberazione della Palestina e Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, sono tutti concordi nel definire il nuovo processo di pace come un “suicidio politico”.

Dall’altra parte del tavolo negoziale ci sarà Tzipi Livni. Nella democrazia israeliana, lei rappresenta un partito (Hatnuah) con appena 6 deputati eletti. Non è propriamente la “voce di Israele”. Attualmente la Livni è ministro della Giustizia nel governo di centro-destra, ma in questi ultimi anni è sempre stata all’opposizione di Netanyahu. Non è affatto detto che, una volta che l’una sarà a Washington e l’altro a Gerusalemme, l’attrito non riprenda.
I confini: quanto sono convinti i palestinesi di rinunciare ai confini del 1967? Lo stesso John Kerry, nel corso dei suoi frenetici negoziati, ha fatto riferimento esplicito al piano della Lega Araba del 2002, una vera idea fissa della diplomazia americana nell’ultimo decennio. Il piano di pace della Lega Araba, benché sembri una soluzione bella e facile che porterebbe al riconoscimento dello Stato ebraico, imporrebbe a Israele condizioni durissime: perdita di Gerusalemme Est, cessione del Golan alla Siria (e il Golan è parte del territorio nazionale, non un “territorio”) e ritorno ai confini del 1967, con buona pace per il mezzo milione di ebrei che vivono dall’altra parte.

 Nel corso dei negoziati, la Lega Araba ha “espresso la speranza che questa (ripresa dei negoziati, ndr) porti alla fine del conflitto, alla una pace onnicomprensiva fra i palestinesi e gli israeliani, alla prosperità, sicurezza e stabilità della regione”.
Ma ha sottolineato l’impegno della Lega a “rispettare l’iniziativa di pace araba (del 2002, ndr), sottolineando che ogni accordo futuro sia basato sulla soluzione dei due Stati i cui confini seguano le linee armistiziali del giugno 1967, più un limitato scambio di territori dello stesso valore e delle stesse dimensioni”.
La Lega Araba ha dato così la sua benedizione al negoziato, a queste condizioni. Abbas terrà conto di questo sostegno e di queste condizioni, a lui estremamente favorevoli. Netanyahu cosa ne dirà, al momento buono?
Questi molteplici fattori, di leadership, opposizioni interne e pressione della Lega Araba, non fanno ben sperare. Eppure dobbiamo veramente sperare che questi negoziati vadano in porto. L’ultima volta che sono falliti, nel 2000, a Camp David, sono stati seguiti da 5 anni di Intifada.

Stefano Magni


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