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Stefano Magni
USA
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Quel pasticciaccio brutto confezionato da Hillary Clinton e Susan Rice 16/05/2013
" Quel pasticciaccio brutto confezionato da Hillary Clinton e Susan Rice "
di Stefano Magni


Stefano Magni, Susan Rice con Hillary Clinton


Chris Stevens morto

Le elezioni negli Usa sono ancora lontane. Tre anni sono lunghi, considerando i tempi della politica. Ma per i media statunitensi (e di riflesso anche quelli italiani), il nome che viene più spesso abbinato alla Casa Bianca è solo uno: Hillary Clinton. Sarebbe la prima donna presidente, “stimata da tutti”, con una lunga esperienza nella gestione della politica internazionale. Il “reset” con la Russia non ha funzionato. L’Iran ha fatto passi avanti verso l’atomica e non ha accettato la “mano tesa” dell’amministrazione statunitense. La Cina è più vicina (e ostile) che mai. La Corea del Nord fa scoppiare una crisi atomica tutti gli anni. Dal 2008 al 2012, gli Usa hanno perso ascendente in Israele… ma non ne hanno guadagnato di più nel mondo arabo. E le primavere del Medio Oriente sono, come minimo, un caso di situazione andata fuori controllo.

In particolare, un episodio di mala gestione dei postumi della Primavera Araba, dimostra quanto la Clinton sia (in)adatta al governo federale. E’ raro vedere un ambasciatore degli Stati Uniti assassinato all’estero. Ancor più raro se viene ucciso in un Paese che dovrebbe essere alleato, liberato dal suo ex dittatore grazie all’aiuto statunitense. Eppure è successo, sotto la diretta responsabilità di Hillary Clinton: l’ambasciatore in Libia, Christopher Stevens è stato assassinato a Bengasi.

Sia la segretaria di Stato che l’ambasciatrice all’Onu, Susan Rice (che avrebbe potuto essere la sua erede), hanno scaricato le loro responsabilità in due modi, affermando che: a) gli eventi che hanno portato all’uccisione dell’ambasciatore non erano prevedibili, in quanto sono sorti da una rivolta “spontanea” scoppiata a causa di un video “blasfemo” che sbeffeggia Maometto b) una volta scoperto che la rivolta non era affatto “spontanea” e non era nemmeno una rivolta, bensì un attacco terroristico, l’amministrazione Usa ha dato la colpa alla Cia.

Secondo quanto rivela la televisione Abc, però, su esplicita richiesta della portavoce del Dipartimento di Stato (dunque: Hillary Clinton), Victoria Nuland, è stato rimosso un intero passaggio del rapporto inviato dalla Cia subito dopo gli eventi dell’11 settembre. Che documentava tutti i prodromi dell’attacco terroristico. “L’Agenzia (la Cia, ndr) ha prodotto numerosi elementi di prova sulla minaccia di estremisti legati ad Al Qaeda a Bengasi e nella Libia orientale. Notava il fatto che, sin dal mese di aprile, erano avvenuti almeno altri cinque attacchi contro interessi stranieri a Bengasi da assalitori non identificati, compresa un’aggressione, avvenuta a giugno, contro il convoglio dell’ambasciatore britannico. Non possiamo escludere che individui, che già da tempo sorvegliavano le sedi diplomatiche statunitensi, abbiano contribuito alla riuscita degli attacchi”. In uno scambio di email fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca, risulta che la Nuland abbia anche esplicitamente scritto di rimuovere questo paragrafo, perché “Potrebbe essere oggetto di un abuso da parte di membri (del Congresso, ndr) per colpire il Dipartimento di Stato, accusandolo di non aver prestato attenzione agli allarmi. Perché dovremmo alimentare anche noi queste voci?”. La Nuland avrebbe anche espressamente chiesto di rimuovere i riferimenti a precisi gruppi terroristi, perché “Non vogliamo pregiudicare l’investigazione”.

Insabbiamento di un errore madornale? Sembrerebbe proprio di sì, considerando anche quanto ha testimoniato Gregory Hicks (il numero due della missione diplomatica statunitense in Libia), di fronte alla Camera. Sia lui che gli altri testimoni, affermano di aver subito pressioni perché non parlassero di quanto era avvenuto in Libia. La notte dell’attacco era stato personalmente contattato ed elogiato sia dalla segretaria di Stato Hillary Clinton, sia dallo stesso presidente Barack Obama. Ma nel momento in cui ha criticato la versione ufficiale degli eventi, negando che fosse un video su YouTube ad aver scatenato l’inferno, Hicks afferma di essere stato subito ripreso dalla sottosegretaria agli Affari per il Medio Oriente, Beth Jones, che ha messo in dubbio la sua “capacità di gestione” e lo ha avvertito che nessuno, al Dipartimento di Stato, avrebbe più voluto mandarlo sul campo. Successivamente è stato destinato a un lavoro d’ufficio. Gregory Hicks afferma, inoltre, di essere stato intervistato dalla commissione di inchiesta sugli eventi di Bengasi (quella che poi ha assolto il Dipartimento di Stato) e che in quell’occasione, nessuno stenografo fosse nella sua stanza durante le sue due ore di deposizione. In compenso c’era un avvocato. Ed era la prima volta in tutta la sua carriera che, in una circostanza simile, Gregory Hicks ne vedeva uno. Mark Thompson, un altro dei testimoni sentiti alla Camera, ha dichiarato di non essere neppure stato consultato dalla commissione di inchiesta, benché fosse membro della squadra di risposta rapida in Libia. Avrebbe potuto (e voluto) parlare del fatto che la squadra di risposta rapida era pronta a intervenire durante l’assalto al consolato. Ma ha ricevuto l’ordine di non farlo.

Le forze speciali americane in Libia, secondo la testimonianza di Hicks, hanno ricevuto l’ordine di non muoversi. Questo dato contraddice quanto era stato detto in precedenza dall’amministrazione, secondo la quale, forze armate statunitensi sarebbero state dispiegate prontamente la notte dell’attacco. Un team delle forze d’assalto era invece pronto a prendere il volo quando Stevens veniva brutalmente assassinato dagli assalitori del consolato. Per lui non ci sarebbe stato, comunque, più niente da fare. Ma Sean Smith, Glen Doherty e Tyrone Woods, morti nell’attacco, potevano essere salvati. Per trasportare le forze speciali statunitensi a Bengasi, il governo libico aveva messo a disposizione un suo C-130 a Tripoli. Ma l’alt è arrivato da Africom, il comando statunitense per le operazioni in Africa. “Non può andare ora, non ha l’autorità per farlo” è la comunicazione ricevuta da Hicks, secondo la sua stessa testimonianza. Quanto alla gestione dell’informazione dopo l’attacco, Gregory Hicks si è detto “sbalordito” dalla dichiarazioni di Susan Rice (ambasciatrice statunitense all’Onu), che attribuiva tutta la responsabilità degli eventi a un video amatoriale che scherniva Maometto, responsabile, secondo la prima versione data dal governo federale, della “sommossa” anti-americana. Nella sua testimonianza, il diplomatico riferisce che la natura terrorista e deliberata dell’attacco al consolato fosse chiara sin dai primi istanti e che Washington ne fosse perfettamente al corrente.

Tra parentesi: perché un ambasciatore americano era a Bengasi, nonostante vi fossero continue avvisaglie di deterioramento della sicurezza in quella città? Secondo quanto riporta l’Interim Progress Report, redatto dalla Commissione per la Supervisione e le Riforme del Governo, Christopher Stevens era lì per espressa volontà della Clinton. Che non voleva perdere l’occasione di avere un portavoce del governo nella città-simbolo della rivoluzione contro Gheddafi, in modo da mantenere alta la visibilità politica degli Usa. A quanto risulta al quotidiano statunitense Newsmax, non solo il Dipartimento di Stato non ha aumentato le forze di sicurezza per il consolato statunitense (nonostante tutti gli allarmi ricevuti), ma in compenso ha assoldato un gruppo legato ad Al Qaeda per far da guardia alla struttura. Il gruppo in questione è la Brigata Martiri del 17 Febbraio. Per sapere che avesse legami con la rete jihadista, non occorrevano nemmeno informazioni della Cia: bastava guardare il loro profilo Facebook. Quale foto di copertina, ben prima dell’attacco al consolato statunitense, la Brigata Martiri aveva messo l’immagine di un suo guerrigliero, con un lanciarazzi sulla spalla e la bandiera nera di Al Qaeda sventolante dietro di lui. Il guerrigliero ritratto, fra l’altro, porta la fascia frontale nera con il simbolo dell’organizzazione orfana di Bin Laden. Quella foto era stata caricata il 10 giugno 2012, dunque tre mesi prima dell’attacco al consolato. Era stata scattata, molto probabilmente, tre giorni prima, durante la manifestazione degli islamisti di Bengasi che chiedevano l’applicazione della legge coranica in Libia. stando a un documento recuperato nel consolato pochi giorni Stando ai documenti diplomatici, ritrovati nella sede del consolato dopo l’attacco, la Brigata Martiri era indicata, dagli americani, come una “forza di reazione rapida” a protezione della missione diplomatica. Il documento recita: “In caso di attacco alla missione diplomatica statunitense, la Forza di Reazione Rapida richiederà ulteriore sostegno alla Brigata Martiri 17 Febbraio”. Prima dell’attacco, nel luglio 2012, quando il responsabile locale alla sicurezza della missione diplomatica aveva chiesto al Dipartimento di Stato di lasciare ai militari statunitensi il compito di proteggere il consolato, la funzionaria che gli rispose, Charlene Lamb (responsabile per la sicurezza dei diplomatici) scrisse nella sua email: “NO, io non (e ripeto) non voglio chiedere loro che resti un contingente militare per la sicurezza”. A chi avrebbe dovuto chiedere? Ai suoi diretti superiori del Dipartimento di Stato, in ultimo alla segretaria Hillary Clinton. La futura presidente degli Usa?


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