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Stefano Magni
USA
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Obama, viaggio concluso: vincitori e vinti 23/03/2013

Obama, viaggio concluso: vincitori e vinti
Commento di Stefano Magni

Un risultato concreto è stato ottenuto: grazie alla visita di Barack Obama, Benjamin Natanyahu ha parlato al telefono con il premier turco Erdogan. E’ la prima schiarita dopo quasi tre anni di tempesta.
Da quel maggio del 2010, quando la Mavi Marmara, carica di militanti turchi pronti ad andare a Gaza, rompendo il blocco navale israeliano, fu abbordata da unità della marina.
Da quando nove di quei militanti morirono.
Netanyahu lo ritenne un atto di pirateria e non aveva mai chiesto scusa. Lo stesso aveva fatto Erdogan. Nemmeno la crisi in Siria è riuscita a riavvicinare gli ex alleati, ormai sempre più distanti.
Adesso, con la conversazione fra Netanyahu ed Erdogan, fatta con Barack Obama fisicamente presente, il premier israeliano si è scusato per quanto accaduto. E il capo del governo di Ankara gli ha risposto sottolineando l’“importanza della forte amicizia e cooperazione tra i popoli israeliano e turco”. Potrebbe essere la fine di un periodo molto imbarazzante per gli Stati Uniti, che considerano sia la Turchia che Israele come i due pilastri della loro politica in Medio Oriente.
Chi sperava nel “miracolo” scaturito dalla visita di Obama, può ritenersi parzialmente soddisfatto. Almeno per ora, pare che un conflitto sia stato ricucito. L’altro mezzo miracolo è l’accoglienza trionfale riservata al presidente Usa, soprattutto dagli studenti, dopo quattro anni di freddezza.
Israele è il Paese in cui l’inquilino della Casa Bianca è meno amato in assoluto. Appena il 10% dell’opinione pubblica esprime un giudizio positivo nei suoi confronti. Questa visita di tre giorni, che serviva a ricucire un buon rapporto, almeno nell’immagine, è forse servita a regalargli parecchi punti in più.
I suoi discorsi sono stati convincenti, soprattutto quello tenuto al Jerusalem Convention Centre, clou della sua visita.
Magari avrà fatto sollevare qualche sopracciglio quell’ecumenico: “Mettetevi al posto dei palestinesi, non è giusto che i bambini crescano senza una nazione”. Ma in ogni caso l’unica contestazione è arrivata dall’estrema sinistra, quando un esagitato ha gridato “Free Palestine!” ed una risata lo ha seppellito.
E il presidente ha dimostrato piena comprensione per le vittime del terrorismo e dei razzi su Sderot.
Pieno sostegno contro i pericoli che si stanno condensando all’estero: le armi chimiche dalla Siria, la possibile arma atomica dall’Iran. In breve, ha dimostrato di capire che cosa è Israele: “Per i giovani israeliani, io so che la sicurezza è radicata in un’esperienza che è ancor più fondamentale rispetto alla minaccia del giorno d’oggi. Voi vivete in un luogo in cui molti dei vostri vicini hanno rifiutato il vostro diritto di esistere. I vostri nonni hanno rischiato le loro vite e tutto quello che hanno potuto fare è stato trovare un luogo in cui stare in questo mondo. I vostri genitori hanno vissuto una guerra dopo l’altra per garantire la sopravvivenza dello Stato ebraico. I vostri figli crescono sapendo che, persone che non hanno mai conosciuto, li odiano solo per quello che sono, in un’area del mondo che sta cambiando sotto i vostri piedi”.
E quindi, “Oggi voglio dirvi, in particolare a voi giovani, che finché vi saranno gli Stati Uniti d’America, Atem lo levad!”, voi non siete soli.
Obama e Netanyahu, però, hanno voluto vincere facile. Perché ogni possibile spigolo, ogni eventuale spunto di contestazione, è stato eliminato preventivamente sia da un’occhiuta Casa Bianca, che da un governo Netanyahu che t,eneva a far vedere un Paese amico.
Niente discorso alla Knesset: Obama avrebbe potuto subire contestazioni, soprattutto dalla destra. La Knesset, però, rappresenta (sicuramente più di una platea selezionata), quello che è il sentimento del popolo israeliano.
Fra gli studenti, sono stati esclusi quelli dell’Università di Ariel. Che è oltre la “linea verde”, in un territorio che i palestinesi reclamano come proprio e dunque una possibile fonte di incidenti.
Ma i veri sconfitti di questa tre giorni sono i palestinesi. Per loro, la visita è stato un disastro. Razzi lanciati da Gaza su Sderot, proprio nel giorno in cui Obama si doveva recare a Ramallah, capitale dell’Autorità Palestinese. Ennesima dimostrazione che le Palestine sono due: una fanatica a Gaza, l’altra (almeno formalmente) pragmatica a Ramallah. Quando Obama ha dichiarato di essere favorevole ad uno Stato palestinese che goda di “contiguità territoriale”, a quale dei due territori si riferiva?
Sul piano diplomatico non c’è stato alcun “miracolo”. Obama ha ribadito che sosterrà uno Stato palestinese, ma che il negoziato con Israele (interrotto dal 2010) deve riprendere “senza precondizioni”. Con o senza accordo sugli insediamenti ebraici, si potrebbe leggere. Anche a Ramallah, nei giorni precedenti e nel giorno stesso della visita, studenti e manifestanti hanno inscenato una protesta. Erano solo un centinaio, si dirà, ma intanto protestare a Ramallah non è come farlo a Tel Aviv. Vuol dire essere veramente inferociti per sfidare la polizia di un regime autoritario. E in effetti la manifestazione è stata subito dispersa con una carica e  lacrimogeni.
A Gaza, invece, oltre al lancio dei razzi, si sono svolte manifestazioni di Hamas contro il presidente statunitense. Quando tornerà negli Usa, quando si occuperà ancora di Medio Oriente, Obama dovrà ricordarsi come è stato accolto nello Stato ebraico e come, invece, nel futuro Stato palestinese.
Il problema, per lui, è come gli arabi, non solo i palestinesi, ricorderanno la sua visita in Israele. Gli editoriali dei quotidiani della regione, tutti fra il pessimista e l’aggressivo, già sono un chiaro segnale.


Stefano Magni


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