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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Informazione Corretta Rassegna Stampa
21.08.2025 Il potere delle parole: lessico eufemistico e criminalizzazione selettiva
Commento di Daniele Scalise

Testata: Informazione Corretta
Data: 21 agosto 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Scalise
Titolo: «Il potere delle parole: lessico eufemistico e criminalizzazione selettiva»

Il potere delle parole: lessico eufemistico e criminalizzazione selettiva
Commento di Daniele Scalise 

Se i terroristi sono palestinesi allora sono "militanti". Ed è solo uno dei tanti artifici lessicali usati dai media per mistificare la realtà del Medio Oriente e far passare Israele sempre dalla parte del torto. Serve una guida per orientarsi nel linguaggio.

In guerra le parole sono proiettili. Ma, a differenza di quelli veri, non lasciano sangue visibile: penetrano nella percezione pubblica e la deformano. Chi controlla il linguaggio controlla la cornice del conflitto. E quando si parla di Israele, i media internazionali hanno perfezionato un lessico che, con apparente neutralità, sposta simpatia e ostilità senza mai dichiararlo apertamente.

“Militanti” vs “terroristi”
Quando Hamas o la Jihad Islamica compiono stragi di civili israeliani, i titoli parlano quasi sempre di “militanti palestinesi”. Militante evoca un attivista politico, un mitico guerrigliero motivato da ideali, non un assassino di famiglie. Terrorista, invece, restituisce l’orrore del gesto e il bersaglio deliberato di civili. Per le stesse azioni, compiute da altri gruppi in altri contesti – l’ISIS in Europa, Boko Haram in Nigeria – la parola “terrorista” è immediata e obbligatoria. Per Hamas, improvvisamente, diventa eccessiva.

“Scontri” vs “attacchi”
Quando un’operazione israeliana elimina miliziani armati in Cisgiordania, le cronache parlano di “scontri”. Scontro è reciproco, paritario: due parti che si affrontano in campo aperto. Ma se i colpi vengono sparati da una sola parte – spesso in risposta a imboscate o atti terroristici – “attacco” sarebbe la parola più corretta. Il termine “scontro” serve a diluire le responsabilità, a far sparire l’aggressore dietro una nebbia di simmetria. Nei conflitti africani o nelle guerre civili asiatiche, lo stesso scenario viene descritto come “attacco” o “agguato”. In Israele, no.

“Coloni” come insulto
Il termine “colono” ha un significato tecnico: indica un residente ebreo in un insediamento della Cisgiordania. Ma nei titoli internazionali e nei lanci delle agenzie è usato come marchio d’infamia. Non “famiglia di civili israeliani uccisa in casa propria”, ma “coloni israeliani uccisi”: la parola funge da etichetta disumanizzante, insinuando che la vittima “se l’è cercata”. È una forma di colpevolizzazione implicita che non troveremmo mai applicata ad altri conflitti. Nessuno titola “coloni ucraini uccisi” per descrivere famiglie di Kherson sotto attacco russo.

La grammatica dell’ostilità implicita
Queste scelte lessicali non sono casuali. Sono il prodotto di anni di sedimentazione ideologica nelle redazioni, dove certe parole diventano automatismi. Ogni termine è un piccolo intervento chirurgico sul significato: militante invece di terrorista riduce la gravità morale, scontro invece di attacco disperde la colpa, colono invece di civile legittima implicitamente la violenza.

Il doppio standard nel vocabolario dei conflitti
Basta osservare la copertura di altri scenari per accorgersi della sproporzione. Gli attentatori di Parigi nel 2015 non erano “militanti” ma “terroristi islamisti”. I massacri dell’ISIS contro gli yazidi non erano “scontri” ma “pulizia etnica” e “stragi”. Le famiglie uccise dai separatisti filorussi in Donbass non erano “coloni” ma “civili ucraini”. Lo stesso vocabolario che altrove è diretto, crudo, inequivocabile, in Israele diventa opaco, attenuato, capace di trasformare carnefici in attivisti e vittime in comparse.

Il linguaggio, così, non è un semplice mezzo per descrivere la realtà: è un’arma per ridefinirla. E quando a Israele viene negata la precisione delle parole che altrove sono la norma, la disinformazione non ha bisogno di inventare fatti: basta piegare la lingua. Il risultato è più subdolo di una menzogna frontale, perché si presenta come professionalità giornalistica, mentre è manipolazione semantica. Le guerre si combattono anche con il dizionario. E in questa guerra, Israele entra già disarmato: i titoli che lo riguardano sono scritti con inchiostro che sembra neutro, ma che, riletto con attenzione, macchia sempre dalla stessa parte.


Daniele Scalise


takinut3@gmail.com

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