Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Non si può riconoscere uno Stato terrorista Commento di Claudia Osmetti
Testata: Libero Data: 11 agosto 2025 Pagina: 4 Autore: Claudia Osmetti Titolo: «Non si può riconoscere uno Stato terrorista, dieci domande sulla Palestina»
Riprendiamo da LIBERO del 11/08/2025, a pag. 4, con il titolo "Non si può riconoscere uno Stato terrorista, dieci domande sulla Palestina" la cronaca di Claudia Osmetti.
Claudia Osmetti
Riconoscere la Palestina è come riconoscere la sovranità a un gruppo terrorista. Il piano lanciato da Sanchez (premier spagnolo) e rilanciato in Europa dal presidente francese Macron non ha senso da nessun punto di vista. Ecco dieci domande e risposte per capirne appieno l'assurdità.
Ha iniziato Sanchez l’anno scorso.
Ora l’ha rilanciato Macron, ha ammiccato Starmer, s’è accodato Carney: sono 147 (su 193) i Paesi membri dell’Onu che riconoscono la Palestina come Stato e almeno altri tre (appunto Francia, Regno Unito e Canada) sono pronti a farlo a brevissimo.
È l’ultimo fronte della guerra in Medioriente: solo che si gioca qui, in Europa, in Occidente.
È la partita diplomatica che da noi vede, da una parte, gli appelli della triade Pd-M5s-Avs che spingono per accodarsi alla vulgata della sinistra internazionale pro-Pal e, dall’altra, il governo che tiene il punto e frena.
Fermo restando che nessuno sta minando il diritto dei palestinesi (alla stregua di ogni altro popolo) alla propria autodeterminazione: chi ha ragione?
Ci siamo posti dieci domande, storiche, attuali e politiche, sulla situazione di Gaza e siamo arrivati alla considerazione che adesso, alle condizioni odierne, coi venti ostaggi ancora vivi in mano ad Hamas e le operazioni sul campo non concluse, legittimare uno Stato palestinese autonomo non sia solamente un enorme abbaglio ma sia anche uno sbaglio potenzialmente disastroso.
Quali confini avrebbe la Palestina?
La questione cruciale è questa: riconoscendo la Palestina, esattamente, che cosa si riconosce?
Per il diritto uno Stato è retto da tre elementi: un popolo, un governo e un territorio.
I suoi confini geografici devono essere definiti, ma per la Palestina non è così.
Oggi l’attenzione è focalizzata sulla Striscia di Gaza, ma ci sono anche le aree A e B di West Bank da tenere in conto: i palestinesi non sono unificati tra loro, è un dato pacifico.
Gaza (dove spadroneggiano i tagliagole di Hamas) e Ramallah (sotto il controllo dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese) sono due entità distinte.
L’una non vale l’altra, non sono collegate fisicamente e non hanno una guida unica (sono almeno vent’anni che l’equilibro precario interno sconsiglia ad Abu Mazen di indire nuove elezioni): non solo non esiste un territorio preciso (è chiaro a chiunque non si limiti alla mera propaganda che la rivendicazione from the river to the sea sia irricevibile perché, di fatto, significa cancellare Israele), non esiste nemmeno una leadership riconoscibile.
Ancora: la ripartizione della Cisgiordania in tre aree è avvenuta con gli accordi di Oslo del 1993.
Nella zona C, quella controllata e amministrata da Israele, il 97% della popolazione è di origini ebraiche (si tratta dei cosiddetti “coloni”).
A loro, con la nascita formale di uno Stato palestinese, cosa succederebbe?
Indipendentemente da come uno la pensa sulla legittimità degli insediamenti, un eventuale piano di risoluzione deve quantomeno porsi la questione: riconoscere la Palestina non è un atto unicamente formale, ha delle ricadute pratiche inevitabili.
Chi ne caldeggia la possibilità è pronto a sostenere che la mediazione di Oslo sia ormai carta straccia?
Perché i palestinesi non hanno ancora uno Stato loro?
Se nel 2025 la Palestina non ha una pagina propria sui manuali di geografia politica non è perché Netanyahu abbia precluso questa possibilità.
Dalla fine del mandato britannico, semmai, e dalla costituzione dello Stato ebraico, sono stati i palestinesi a rifiutare la creazione di un loro Paese in almeno quattro occasioni:
nel 1947 non hanno accettato la risoluzione dei due Stati promossa dalle Nazioni unite;
dopo la Guerra dei sei giorni del 1967 hanno bocciato la proposta di ricostruzione dei vecchi confini pur di non cedere al riconoscimento reciproco con Israele;
con gli accordi di Camp David del 2000 Arafat ha respinto l’offerta del premier ebraico Barak con la quale avrebbe ottenuto il 97% dei territori e persino Gerusalemme est;
nel 2008 Abu Mazen ha rimandato al mittente il tentativo di Olmert che addirittura allargava le concessioni.
Ai civili piace l’idea?
Sì, ma un conto è Hamas e un altro sono i civili.
È vero che nella Striscia il consenso verso Hamas continua a diminuire e che, nell’ultimo periodo, si sono visti alcuni tentativi di manifestazioni avverse che vanno sicuramente incoraggiati (quella è la vera “resistenza palestinese”), ma un recentissimo sondaggio del Palestinian center for policy and survey research, del maggio scorso, sostiene che appena il 54% degli abitanti di Gaza (quindi una maggioranza risicatissima) e il 66% di quelli della Cisgiordania sarebbero favorevoli alla creazione di uno Stato che li rappresenti.
Al contrario il 36% di loro (ossia più di un palestinese su tre) è nettamente contrario.
C’è di più: il 64% dei palestinesi, una percentuale in crescita di sette punti in appena sette mesi, è convinto che la soluzione dei due Stati non sia praticabile.
I Paesi arabi riconoscono Israele?
Non si può riconoscere la Palestina senza pretendere che gli Stati arabi non facciano altrettanto con Israele.
Il principio di reciprocità è alla base del diritto internazionale, eppure appena sei (su un totale di 22 appartenenti alla Lega araba) Paesi musulmani riconoscono, a oggi, la libera esistenza dello Stato ebraico.
Si tratta della Giordania e dell’Egitto (che hanno pagato con due uccisioni, quella di re Abdullah I nel 1951 e quella di al-Sadat nel 1981, la decisione di voler vivere in pace in Medioriente), degli Emirati arabi uniti, del Bahrain, del Marocco e del Sudan.
Tutto il resto del mondo islamico non si è ancora mosso in questo senso.
Lo statuto di Hamas è compatibile con la creazione di uno Stato?
La verità è che, per i palestinesi, l’esigenza territoriale non è mai stata una priorità, al contrario dell’intenzione (dichiarata e scritta) di distruggere il vicino Stato ebraico.
L’articolo 14 del riformato statuto di Hamas (quindi nella versione del 2017 che alcuni reputano più “morbida” rispetto all’originale del 1988) definisce Israele «il giocattolo del progetto sionista»;
l’articolo 20 rifiuta «qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina dal fiume al mare».
Non c’è, al contrario, nessun passaggio, cavillo o comma che richiami alla necessità di dotarsi di un apparato statale definito (concetto che, peraltro, è tradizionalmente più occidentale).
Se le condizioni sono queste, riconoscere lo Stato palestinese vorrebbe dire condannare Israele a un’esistenza ancora più minacciata.
Cosa succederebbe ai profughi palestinesi?
L’unico aspetto positivo del riconoscimento di uno Stato di Palestina sarebbe l’immediata chiusura, per sopraggiunto conseguimento del suo stesso scopo, dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni unite per i profughi palestinesi.
Ma questo è uno dei motivi per cui i palestinesi rifiutano uno Stato: tenendo in considerazione solo le offerte respinte nel secolo in corso, la motivazione principale che le ha fatte saltare è stata quella del “diritto al ritorno” nei luoghi che, dal 1948, spettano, grazie alla risoluzione Onu 181, a Israele.
Avere un territorio palestinese indipendente e sovrano farebbe venir meno questa richiesta che oramai, grazie allo status di rifugiati particolare riservato ai palestinesi, unico popolo al mondo che può tramandarselo tra generazioni, viene avanzata da oltre cinque milioni di persone sparse sull’intero pianeta.
Perché la Palestina sì e il Tibet no?
La Palestina non è l’unico Stato non riconosciuto dal consesso internazionale.
Giusto per fare tre esempi:
il Somaliland è composto da sette province, è tutto sommato stabile, povero ma a modo suo efficiente, svolge elezioni regolari, ha dei confini definiti e una moneta nazionale (nella Striscia, prima della guerra, la sterlina palestinese era già un ricordo del passato e la valuta che circolava era lo shekel israeliano): eppure nessuno, in Europa, si intestala battaglia per il suo riconoscimento.
Il Kurdistan ha la più grossa popolazione senza una terra al mondo, peraltro che è stata ed è a tutt’ora decisiva nella lotta contro l’Isis, vanta una storia millenaria ed è sopravvissuto a massacri e repressioni: ma non si è vista mezza campagna di sensibilizzazione ad appoggio della sua causa.
Il Tibet è abitato fin dal 700 a.C., ha un leader che viene accolto in tutto il mondo, è stato invaso più di mezzo secolo fa dalla Cina che gli ha imposto il suo regime comunista: tuttavia nessun Paese ne ha mai riconosciuto l’indipendenza o si batte per garantirgliela.
Se la logica è quella della difesa dei diritti delle popolazioni vessate, perché la Palestina sì e il Tibet no?
Che conseguenze avrebbe il riconoscimento della Palestina ora?
Riconoscere la Palestina adesso avrebbe come prima grande conseguenza quella di aprire la strada a un modello poco rassicurante.
Né l’Occidente né Israele (checché ne dicano i propal) sono in guerra coi civili palestinesi, coi loro terroristi (che ancora tengono le redini pubbliche a Gaza), però sì.
Riconoscere la Palestina è una cosa, riconosce la Palestina di Hamas è un’altra: la differenza è abissale.
In questi giorni uno dei portavoce di Hamas, Ghazi Hamad, intervenendo in una televisione araba, ha detto: «Perché i Paesi riconoscono la Palestina ora? I frutti del 7 ottobre hanno fatto sì che il mondo intero aprisse gli occhi sulla causa palestinese».
Se riconoscere la Palestina significa giustificare il pogrom dei kibbutz del 2023 (e magari incoraggiarne un altro), non si sta difendendo nessun diritto: si sta solo legittimando la violenza.
Risolverebbe la situazione?
In una recentissima intervista al Corriere della Sera la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni ha sostenuto che «se l’Occidente continua a legittimare Hamas come sta facendo, tra la politica e il mondo universitario, tutto (la volontà di arrivare a un negoziato in Medioriente, ndr) si complica».
È così.
Il riconoscimento a senso unico non cambierebbe gli equilibri dello scenario mediorientale se non in peggio: e cioè rafforzando la posizione antisemita, antiebraica e antioccidentale di Hamas.
Il mondo arabo sostiene in questa “causa palestinese”?
La supposta unità araba a sostegno della lotta palestinese è ascrivibile più al mondo delle chimere che a quello della realtà.
Nell’ultimo mezzo secolo il panarabismo e i movimenti arabi hanno perorato la causa di Gaza sempre più timidamente.
Una decina di giorni fa, per la prima volta, la Lega araba ha condannato il 7 ottobre e ha chiesto ad Hamas di rilasciare gli ostaggi ancora prigionieri, di disarmarsi e di fare un passo indietro nell’ottica di concludere il prima possibile il conflitto e avviare il percorso per la creazione di uno Stato palestinese.
Questa dichiarazione, pronunciata addirittura nella sede dell’Onu, assai più avveduta dei proclami di pancia molte leadership europei, è di portata storica: se l’ottica è questa sì, certo, che si pongono le basi per uno Stato palestinese da riconoscere.
Per inviare la propria opinione a Libero, telefonare 02/999666, oppure cliccare sulla e-mail sottostante