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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Il Riformista Rassegna Stampa
06.08.2025 I nuovi 'registi del consenso' nel conflitto arabo-israeliano
Analisi di Alex Zarfati

Testata: Il Riformista
Data: 06 agosto 2025
Pagina: 2
Autore: Alex Zarfati
Titolo: «I nuovi 'registi del consenso' nel conflitto arabo-israeliano parlano a Gen Z e Gen Alpha»

Riprendiamo dal RIFORMISTA, del 06/08/2025 a pagina 2, l'analisi di Alex Zarfati dal titolo "I nuovi 'registi del consenso' nel conflitto arabo-israeliano parlano a Gen Z e Gen Alpha".

 

C’era un tempo in cui chi parlava a nome degli ultimi rischiava qualcosa. Si chiamavano attivisti, si sporcavano le mani, pagavano un prezzo. E i giornalisti, per molti decenni il filtro critico del mondo, erano la voce razionale, lo strumento di verifi ca. Non erano perfetti, ma avevano un dovere: accertare, spiegare, rispondere. Oggi, quell’architettura si è sgretolata. L’editoria in crisi ha smesso di formare e ha cominciato a inseguire, ha abdicato alla profondità per mendicare attenzione, perdendo credibilità, peso e rigore. Le fonti non si verificano più, le foto si copiano senza porsi le più elementari domande. Chi, per esempio, si è chiesto se le immagini dei “bambini affamati” raffi gurassero davvero Gaza? Alcune provenivano dalla Siria, altre esibivano malati di poliomielite. Eppure nessuno si è preso la briga – nemmeno da una scrivania – di verificarlo.

O quando si è fatto, come il New York Times, le foto false sull’account da 55 milioni di follower sono state smentite su un altro account da 88 mila. Nessuna inchiesta giornalistica si è domandata come sia possibile che, in parallelo alle immagini di “fame estrema”, centinaia di account TikTok mostrino i mercati di Gaza colmi di merci, pasticcerie, centri commerciali, auto nuove. La contraddizione non turba. Ed ecco che in questo universo post-reale si fanno strada gli influencer – piccoli e grandi – a prendersi la scena. Non sono più solo personaggi social, sono ormai gli unici veri mediatori culturali della Gen Z e della Gen Alpha.

Parlano la loro lingua, usano i loro strumenti, si muovono con naturalezza tra gli algoritmi. Spesso approssimativi quanto chi li segue, proprio per questo credibili. Ma sono tutt’altro che stupidi: hanno studiato la rete, conoscono le regole dell’attenzione e sanno che lì si gioca la loro sopravvivenza economica e sociale. Perché chi ottiene engagement, oggi, mangia. E chi non lo ottiene, scompare. Il peso di questi nuovi registi del consenso è enorme. Le aziende lo sanno: investono miliardi sui social togliendo risorse all’advertising tradizionale, perché gli influencer vendono. Spingono. Fanno opinione. E qui scatta il cortocircuito. Perché se chi recensisce da casa una beauty box è anche quello che ci invita a “boicottare l’occupazione israeliana”, allora non siamo più follower, siamo un target.

Chi segue i trend per sopravvivere, non li sfida. Così come non morde la mano che gli regala uno smartphone o lo invita a un press tour con cena gratis, non toccherà mai la causa più instagrammabile: quella che commuove, semplifica, polarizza. Così, mentre Israele viene sistematicamente cancellata dal discorso pubblico, i contenuti “pro-Israel” – se non vengono direttamente censurati – ricevono una visibilità irrisoria. Una campagna pro-israeliana può ottenere cinquemila visualizzazioni, mentre le stories sulla Palestina campeggiano fisse nei top trend di Instagram e TikTok. Del resto, chi avrebbe voglia di sacrificare carriera, ingaggi, standing, per difendere una causa che nessuno vuole vedere? Quanti sono disposti ad assumersi il rischio di essere linciati nei commenti, isolati dai colleghi, ignorati dai brand?

Per questo trovare un influencer che difende Israele è difficile quanto leggere una stroncatura su un ristorante che ha offerto la cena. Il meccanismo è lo stesso. Nessuno avvelena il pozzo da cui beve. Apparire filopalestinesi invece oggi è un vantaggio: spalanca le porte dell’applauso globale. Le celebrities che lo fanno – centinaia nello star system italiano – vengono invitate, celebrate, ripostate. Chi invece prova a rompere il coro per denunciare il terrorismo viene subito bollato, ostracizzato, costretto a giustificarsi per ogni parola. E in questa dinamica selettiva senza responsabilità, non si crea pensiero, ma branco. Ma esistono molti gradi di separazione morale tra mentire su un pandoro solidale e su un’accusa di genocidio, tra ignorare la panna acida di un maritozzo e il video di un ostaggio israeliano torturato dalla Jihad. Eppure il sistema funziona. Benissimo. Perché il nuovo attivismo non pretende studio, complessità, confronto. Ma solo fedeltà emotiva, mentre la ruota della colpa continua a girare impazzita.

Ai ragazzi non serve più conoscere la storia, basta “sentire”, spinti dall’emulazione. Così il conflitto arabo-israeliano è diventato una coreografia: quando genera engagement, viene impacchettato; se crea complessità, viene ignorato. E quando la domanda non è più “chi ha ragione”, ma “chi conviene sostenere”, il vero fallimento non è solo morale, ma culturale. È l’effetto collaterale di un mondo che ha scambiato l’autorevolezza con la popolarità, la verifica con la viralità, la coscienza con il traffico. E in un mondo che si commuove per una lattina e ignora un pogrom, forse l’ultimo gesto davvero rivoluzionario è non cedere all’emozione programmata. Per riconoscere, fi nalmente, che chi parla con voce sommessa non è sempre nel giusto. Spesso, è solo più allenato a restare popolare.

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redazione@ilriformista.it

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