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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Libero Rassegna Stampa
30.07.2025 Caccia all’ebreo. Cos’altro deve succedere?
Commento di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 30 luglio 2025
Pagina: 1/4
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «Dopo la caccia all’ebreo in autogrill che altro deve succedere?»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 30/07/2025, a pag. 1/4, con il titolo "Dopo la caccia all’ebreo in autogrill che altro deve succedere?", il commento di Daniele Capezzone. 

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

L'aggressione in autogrill, presso Milano, di un ebreo francese è un segnale di allarme forte e chiaro. Che altro deve succedere prima di una mobilitazione in difesa degli ebrei? La solidarietà con Israele dopo il 7 ottobre è durata pochissimo, poi è iniziato il linciaggio a reti unificate.

Che altro deve succedere, mi chiedo, perché sia convocata una grande manifestazione composta, seria, senza urla contro un antisemitismo che è ormai molto più di un rigurgito? Quale abisso dobbiamo raggiungere? Una volta toccato il fondo, dobbiamo forse scavare ancora? Non basta la scena repellente di un padre picchiato selvaggiamente in un autogrill davanti al figlioletto di sei anni, essendo “colpevoli”, il grande e il piccolo, di indossare la kippah?
Quella kippah dovremmo chiedere tutti di poterla portare sulla testa. In primo luogo, chi - come chi scrive non è di religione ebraica.
Perché il problema, a questo punto, non può essere descritto come “la difesa di una minoranza”. Impostata così, la battaglia culturale sarebbe già rovinosamente persa. Il tema riguarda invece ognuno di noi, il “cento per cento”, il tutto e non solo una parte. Se passa il principio per cui qualcuno possa essere aggredito a causa della sua religione, non possiamo cavarcela sperando che la disgrazia riguardi qualcun altro.
Non giriamoci intorno. Dopo il 7 ottobre, la solidarietà verso Israele e gli ebrei è durata lo spazio di un mattino.
E, dall’inizio della risposta militare di Gerusalemme, è invece partito il coro sulla «risposta proporzionata», sull’«escalation», sulla «misura». Argomenti legittimi, ci mancherebbe: e che - se portati con buona fede- meriterebbero ascolto, riflessione e discussione, nel consenso o nel dissenso.
Ma può esserci buona fede se chi avanza quelle obiezioni non dice una parola sugli ostaggi israeliani che tuttora (quasi ventidue mesi dopo!) restano, vivi o morti, nelle mani di Hamas?
Può esserci buona fede se chi solleva quei temi non si avvede di come lo slittamento logico-politico-mediatico sia ormai pressoché istantaneo? La legittima critica contro Netanyahu diventa critica contro Israele che diventa a sua volta attacco contro le persone di religione ebraica.
È quanto sta accadendo sotto i nostri occhi.
Se uno vuole (lo ripeto ancora: legittimamente, ultralegittimamente) criticare un governo, allora dovrebbe essere il primo a preoccuparsi di distinguere quel ragionamento dall’attacco a una Nazione e soprattutto dalla creazione di un clima infame contro le persone di religione ebraica.
Starei per dire che - se ci si muovesse nel perimetro della buona fede proprio i più severi critici di Netanyahu dovrebbero idealmente indossare per primi la kippah di cui parlavo: per difendere il proprio diritto a criticare una politica, ma anche per fare scudo - se necessario, con il corpo - contro chiunque osi passare all’aggressione contro le persone.
E invece no: si tace, si confonde, si minimizza. Si crea - come dicevo - un clima di odio e di intimidazione.
L’odio lo vedi nei visi stravolti, quasi deformati, degli aggressori nell’autogrill di Milano. L’intimidazione la cogli nel fatto che nessuno sia intervenuto a difendere quel papà mentre era travolto dai calci di chi nel frattempo urlava e inveiva (un po’ in italiano e un po’ in arabo, racconta l’aggredito).
Par di capire che una sola persona, una signora, abbia salvato la dignità di tutti noi, premurandosi di assicurare almeno un minimo di protezione fisica al bimbo, mentre il padre era umiliato e scalciato.
Ma resta il silenzio e il non intervento di troppi altri. Lo stesso silenzio e lo stesso non intervento (nel racconto del violoncellista Amit Peled, cacciato qualche sera fa da un ristorante italiano a Vienna perché parlava ebraico) degli altri clienti, degli altri avventori del locale. Inerti? Rassegnati? Magari sinceramente dispiaciuti ma impotenti? Non saprei dirlo. E però, mentre l’ebreo o il supposto ebreo - fa lo stesso - veniva allontanato, resta il fatto che nessuno abbia mosso un dito.
Siamo giunti al momento della verità. Indro Montanelli, un gigante spesso applaudito ma raramente davvero ascoltato, sia in vita che dopo la morte, ammoniva di tanto in tanto su una nostra attitudine (Montanelli amava gli italiani, ma ne conosceva bene i difetti), sotto sotto, a parteggiare per chi le botte le dà e non per chi le prende.
Non so se avesse ragione. Comincio a temere di sì.

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