Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
I riconoscimenti dei terroristi non portano alla pace Analisi di Stephen M. Flatow
Testata: israele.net Data: 20 luglio 2025 Pagina: 1 Autore: Stephen M. Flatow Titolo: «Il riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese senza negoziato, accordo fra le parti e ferree garanzie di sicurezza non produrrebbe la pace ma ulteriori spargimenti di sangue. È questo che vogliamo?»
Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - l'analisi di Stephen M. Flatow tradotta da jns.org dal titolo "Il riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese senza negoziato, accordo fra le parti e ferree garanzie di sicurezza non produrrebbe la pace ma ulteriori spargimenti di sangue. È questo che vogliamo?".
Stephen M. FlatowIl riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese, mina la sicurezza israeliana e premia estremisti come Hamas. La pace può nascere solo da negoziati bilaterali con garanzie concrete. La sovranità, deve essere guadagnata, non concessa senza condizioni
Scrive Stephen M. Flatow: Come si è visto in Iran, Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, rende più sicuri il Medio Oriente e l’Europa. E come viene ripagato? Con appelli alla creazione unilaterale di uno stato palestinese.
Paesi come Francia, Irlanda, Spagna e Norvegia si sono già mossi verso il riconoscimento dello stato palestinese. Il Regno Unito e altri potrebbero presto seguirli.
C’è chi lo presenta come un passo coraggioso verso la pace. In realtà, il riconoscimento unilaterale mette a rischio la sicurezza di Israele, aizza gli estremisti e ostacola la causa di una vera pace.
Dal punto di vista di Israele, questi proclami ignorano gli elementi essenziali di qualsiasi praticabile soluzione a due stati: il recupero dell’opinione pubblica palestinese dall’indottrinamento alla violenza, garanzie di sicurezza realmente applicabili, confini reciprocamente concordati, completa smilitarizzazione.
Senza questi elementi, lo stato palestinese diventerebbe facilmente la rampa di lancio per ulteriori gravi violenze, non una base per la pace.
Per decenni, il consenso internazionale ha ritenuto che uno stato palestinese dovesse emergere da negoziati bilaterali, che riguardassero sicurezza, rifugiati, Gerusalemme e confini. Questa era la premessa su cui si basavano gli Accordi di Oslo, firmati da Israele e Olp e sostenuti da successive amministrazioni statunitensi, dalla UE e da risoluzioni dell’Onu.
Il riconoscimento unilaterale stravolge questo processo.
Premia una dirigenza palestinese corrotta e autocratica con la creazione di uno stato senza chiedere alcun impegno né concessione.
Peggio ancora, rafforza le forze irriducibili come Hamas che si rifiutano di riconoscere Israele, di deporre le armi, di abbandonare il terrorismo (e che vedono in quel riconoscimento una vittoria della loro linea terrorista e sanguinaria).
Se lo stato viene consegnato senza alcun impegno per la coesistenza, perché mai i capi palestinesi dovrebbero scendere a compromessi nei negoziati futuri?
Un tale riconoscimento elimina gli incentivi a negoziare e compromette la possibilità di Israele di far valere le proprie esigenze su questioni esistenziali come: confini difendibili, spazio aereo, condivisione di intelligence, controllo sulla presenza di forze straniere. Viene da chiedersi: quanto tempo ci vorrà prima che dei “consiglieri” nordcoreani (per non dire iraniani) facciano la loro comparsa in Palestina?
Non è questione di orgoglio o di simboli. È una questione che riguarda la possibilità di Israele di difendersi dal terrorismo e dalle minacce regionali.
La geografia è importante. Le linee pre-1967 – al centro di molte proposte di riconoscimento unilaterale – lasciano Israele ampio appena una dozzina di chilometri nel suo punto più stretto. Quei “confini di Auschwitz”, come sono stati chiamati, renderebbero facile per un esercito invasore (si pensi al 7 ottobre) spaccare in due il paese, e dilagare.
Rinunciare al controllo della sicurezza di tali aree senza garanzie ferree è un rischio che nessun governo israeliano può correre.
Uno stato palestinese prematuro (senza condizioni né garanzie) potrebbe anche smantellare la fragile rete di coordinamento antiterrorismo e di accordi di confine che proteggono sia israeliani che palestinesi.
Qualsiasi futura entità palestinese deve essere completamente smilitarizzata – niente razzi, tunnel o armi pesanti (come è avvenuto e avviene per altri stati indipendenti nel mondo ndr) – e deve essere soggetta a una rigorosa sorveglianza dei confini per prevenire il traffico di armi e di “combattenti” stranieri.
L’attuale, seppure imperfetto, coordinamento di Israele con l’Autorità Palestinese si basa sul controllo israeliano di zone chiave. Concedere lo stato prima dell’entrata in vigore di nuovi accordi di sicurezza molto probabilmente romperebbe questi rapporti e creerebbe un vuoto che gruppi terroristici come Hamas e Jihad Islamica Palestinese sarebbero pronti a sfruttare.
I sostenitori del riconoscimento affermano che lo stato modererà la politica palestinese. Ma l’esperienza della striscia di Gaza racconta una storia diversa. Il disimpegno di Israele del 2005 mirava a ridurre le tensioni e rafforzare l’autogoverno palestinese. Invece, Hamas ha preso il potere e ha lanciato guerre a ripetizione. Da allora, oltre 20.000 razzi sono stati lanciati contro Israele da Gaza, culminando negli orrori del 7 ottobre.
La lezione da trarre? Che la sovranità senza responsabilità genera violenza. I gesti di buona volontà vengono intercettati e sfruttati dagli estremisti. La vera pace richiede responsabilità reciproca, non rinunce e concessioni unilaterali.
Può essere che i governi europei agiscano con le migliori intenzioni, ma le loro scelte possono aggravare e peggiorare il conflitto. Premiando violenza e intransigenza e bypassando i negoziati, emarginano le voci pragmatiche e rafforzano gli estremisti.
Nell’intero arco politico israeliano, pur con tutte le sue diversità, vi è un ampio consenso (specie dopo il 7 ottobre) sul fatto che la creazione di uno stato palestinese non deve avvenire a scapito della sicurezza israeliana. Il riconoscimento, se ha da esserci, deve essere condizionato a impegni vincolanti:
uno stato palestinese smilitarizzato e privo di armi offensive;
fine verificabile, ad ogni livello, dell’istigazione e del sostegno al terrorismo;
pieno accesso israeliano ai sistemi di intelligence e di pre-allarme;
confini concordati che garantiscano perimetri difendibili;
riconoscimento permanente da parte dei palestinesi di Israele come stato nazionale del popolo ebraico, espressione del suo diritto all’autodeterminazione.
Questi non sono ostacoli alla pace: ne sono le indispensabili fondamenta. Qualsiasi accordo deve riflettere le dure realtà della regione, non un idealismo predicato da lontano.
Il desiderio di pace è reale da tutte le parti. Ma la pace non può essere imposta, soprattutto non sacrificando la sicurezza di una nazione per ostentare gesti simbolici.
Se il mondo vuole davvero una soluzione duratura, deve tornare al negoziato, al riconoscimento reciproco e agli obblighi reciproci.
Come affermò il leader sionista Chaim Weizmann nel 1947, dopo il voto delle Nazioni Unite sulla spartizione, la sovranità non viene consegnata su un magesh hakessef, un vassoio d’argento. Deve essere guadagnata e garantita da coloro che vogliono sinceramente vivere in pace.
Qualsiasi cosa di meno rischia di produrre non riconciliazione e coesistenza, ma un ulteriore e continuo spargimento di sangue.
(Da: jns.org, israele.net, 30.6.25)
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