Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Il Pkk si disarma, Erdoğan promette diritti, la merce di scambio sono i voti Analisi di Mariano Giustino
Testata: Il Riformista Data: 13 luglio 2025 Pagina: 2 Autore: Mariano Giustino Titolo: «Il Pkk si disarma, Erdoğan promette diritti, la merce di scambio sono i voti»
Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 13/07/2025, a pagina 2, l'analisi di Mariano Giustino: "Il Pkk si disarma, Erdoğan promette diritti, la merce di scambio sono i voti".
Mariano Giustino
Una resa simbolica del PKK in Turchia. Trenta membri del gruppo armato curdo depongono e bruciano le loro armi. Fa parte dell'effetto domino del cambio di regime in Siria, ma è anche la nuova linea di Erdogan che tratta con i curdi per avere i loro voti. Il "sultano" infatti sta perdendo colpi e alle prossime elezioni potrebbe essere battuto.
Trenta membri del PKK, 15 donne e 15 uomini, si sono radunati tra le montagne della provincia curda irachena di Süleymaniye, deponendo le loro armi in un enorme calderone infuocato davanti a più di cento funzionari turchi e dell’Unione delle comunità del Kurdistan (KCK), tra cui esponenti del filocurdo DEM, il Partito della democrazia e dell’uguaglianza dei popoli e a un gruppo di selezionati giornalisti.
Un rituale simbolico preteso da Erdoğan per poterlo presentare all’opinione pubblica interna e internazionale in tutta la sua valenza significativa e propagandistica.
Ha voluto rappresentare il disarmo curdo come una sua vittoria su un’organizzazione armata contro la quale il potente Stato turco ha combattuto, per 41 anni, una guerra a bassa intensità.
Dal 2016, Ankara era riuscita a mettere alle strette il Pkk nel nord dell’Iraq creando oltre cento avamposti militari nel nord del Paese e limitando fortemente la libertà di movimento e di infiltrazione del gruppo oltre il confine con la Turchia e con la Siria.
Adesso Erdoğan intende proseguire la sua opera, cercando un accordo con i curdi per salvarsi da un destino che sembra segnare il suo tramonto politico, mentre il suo partito continua a perdere consensi anche nelle roccaforti più conservatrici e tradizionaliste.
Essenziale è per il presidente attrarre il prezioso voto curdo che ha sempre rappresentato l’ago della bilancia nelle elezioni politiche e presidenziali, e che negli ultimi anni è stato determinante nel supporto elettorale vincente per il maggior partito d’opposizione CHP.
Il capo di Stato turco sta presentando questo processo con una retorica rassicurante davanti all’opinione pubblica del Paese, che rimane fortemente nazionalista, giustificando questa operazione di “apertura curda” con la necessità di una “Turchia senza terrorismo” e la limita al solo PKK che depone le armi e si dissolve.
Ma non parla né di diritti né di democrazia.
Altrettanto scettico è il partito filocurdo DEM, perché sostiene che senza democrazia e in un contesto in cui i sindaci eletti dell’opposizione sono in carcere, in cui la magistratura è eterodiretta e non vi alcuna certezza del diritto, è impossibile pensare a un processo democratico autentico per le minoranze.
Mercoledì, Abdullah Öcalan, per la prima volta dal 1999, è apparso in un video dalla sua cella sull’isola prigione di İmralı per annunciare ai sostenitori e ai membri del suo partito la fine della lotta armata.
Quasi a sorpresa, senza far alcun riferimento né alla sua dottrina del “confederalismo democratico”, né al federalismo, né all’autonomia, ha messo da parte il suo pensiero e si è limitato a far semplicemente riferimento a una auspicata democrazia e stato di diritto.
Speranze a cui si unisce il suo desiderio che il parlamento turco si doti di una commissione per supervisionare il disarmo e adottare misure per gestire il processo di pace.
Ora Erdoğan sta indirizzando la sua strategia repressiva contro il Partito repubblicano del popolo, il maggior partito d’opposizione (CHP) e non più contro il filocurdo DEM.
Si muove su due binari paralleli, su di uno reprime la maggiore forza di opposizione e sull’altro, cerca una alleanza con i curdi.
Tutto questo considerando che, a Costituzione vigente, il presidente non potrà più ricandidarsi per il limite costituzionale dei due mandati.
Ma con il sostegno del filocurdo DEM in Parlamento, il referendum sulla nuova Costituzione avrebbe i voti necessari per essere indetto e per Erdoğan si aprirebbe la strada verso una nuova vittoria, dal momento che, con il voto curdo, il Sì al referendum raggiungerebbe una vittoria sicura.
Ai leader della minoranza sembra che basti solo avere in cambio qualche diritto in più, come quello alla lingua e quello all’istruzione.
Invocano poi la fine della repressione che ha visto in 40 anni la distruzione quasi totale del loro tessuto sociale, politico e culturale oltre alla liberazione dei combattenti e dei prigionieri politici, molti dei quali ormai anziani.
Nella mossa di Erdoğan vi è però un’altra incognita: quella dei curdi-siriani.
Come reagiranno?
Si allineeranno a questo processo?
Sicuramente il cambiamento degli eventi in Siria è una delle ragioni principali per cui il governo turco ha avviato la sua opera di sensibilizzazione nei confronti dei curdi.
Il Sultano teme che l’Iran, privato della sua capacità di deterrenza e delle sue ramificazioni in Medioriente, possa attrarre a sé i gruppi curdi, usciti indeboliti in seguito alla cacciata di Assad, in funzione anti turca e anti israeliana e dunque ha pensato bene di lanciare questa “apertura curda” per non lasciarli alla mercé di iraniani o israeliani.
Non è un caso se, mentre Öcalan lanciava il suo messaggio, a Damasco si svolgeva un incontro cruciale tra l’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale (DAANES), il governo di Hayat Tahrir al-Sham di Shara, gli USA e la Francia.
Erano tutti seduti allo stesso tavolo.
La delegazione comprendeva il comandante in capo delle Forze democratiche siriane (SDF), Mazlum Abdi.
Gli Stati Uniti erano presenti con l’ambasciatore statunitense ad Ankara e inviato speciale per la Siria, Tom Barrack, che ha lanciato preoccupanti avvertimenti alle SDF.
L’inviato speciale Usa per la Siria ha detto che i curdi-siriani sono stati “lenti” nell’accettare di negoziare con il governo siriano.
“C’è una sola strada e quella è la strada per Damasco”, ha detto Barrack, aggiungendo che su questo non vi è da fantasticare:
“Il federalismo non funziona in Siria”, ha sottolineato.
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