Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Boicottare Israele? Il professor Faldini non ci sta Intervista di Claudia Osmetti
Testata: Libero Data: 08 luglio 2025 Pagina: 4 Autore: Claudia Osmetti Titolo: «Il prof che non ci sta «Boicottare Israele? Non in nome mio»»
Riprendiamo da LIBERO del 08/07/2025, a pag. 4, con il titolo "Il prof che non ci sta «Boicottare Israele? Non in nome mio»" la cronaca di Claudia Osmetti.
Claudia Osmetti
Il professor Cesare Faldini, ordinario di Ortopedia e Traumatologia all'Università di Bologna, contrario al boicottaggio di Israele
«È la disparità di trattamento che mi ha innervosito.
Sinceramente non vedo perché si debbano usare due misure: da una parte si mettono paletti e limitazioni alle collaborazioni con Israele e dall’altra si promuovono quelle con la Palestina». Cesare Faldini non è solamente il chirurgo ortopedico più premiato al mondo (mica per modo di dire: giusto un paio di settimane fa l’American accademy of orthopaedic surgeons gli ha riconosciuto il primato), è anche il direttore della Clinica di ortopedia all’istituto Rizzoli di Bologna e fa il professore ordinario di Ortopedia e Traumatologia all’università della stessa città. Quando, un mesetto fa, ha letto le mozioni del Senato accademico sulla situazione di Gaza e del Medioriente, ha deciso di farsi sentire.
Non è un “partigiano”, Faldini, nel senso che non sposa né le tesi filo-israeliane più oltranziste né quelle pro-Pal: è un uomo di scienza, semmai, pacato, sempre disponibile, preciso nel parlare, convinto che il ruolo della didattica sia il dialogo e non il boicottaggio.
Dottor Faldini, riassumo brevemente per chi ci legge: lei ha scritto al rettore di Bologna Giovanni Molari, agli organi universitari, ai rappresentanti degli studenti e anche alla comunità ebraica spiegando che non è d’accordo con quel provvedimento. Perché?
«In quel documento il Senato accademico, oltre a prendere le distanze da ciò che succede a Gaza e auspicare la formazione di uno Stato palestinese, cose che ci possono anche stare, ha ribadito la necessità di un monitoraggio per le attività in collaborazione con gli atenei israeliani nei termini del dual-use, cioè del fatto che la tecnologia ipoteticamente generata dalle università non abbia alcun tipo di effetto offensivo nei confronti della guerra. Subito dopo, però, si è impegnato, glielo leggo testuale, “a rafforzare concretamente la propria azione nel promuovere ogni iniziativa orientata alla costruzione di una cultura della pace” eccetera, “sostenendo partenariati accademici con le istituzioni palestinesi”. La scienza sta sopra al livello dello scontro politico».
Certo, però non è la prima volta che vengono prese decisioni del genere...
«Sì. Mi scusi se la interrompo: il nostro ateneo ha un codice etico molto stringente.
Io, per essere chiaro, per nessuno, in nessuno Stato del mondo, per nessuna ragione, posso collaborare a produrre, chessò, munizioni, mine anti-uomo e via dicendo. Qualunque cosa abbia a che fare con l’offesa dell’essere umano è già bandita. Perché allora si è sentito il dovere di ribadire questo aspetto nei confronti di Israele e non anche della Palestina? E allargando il discorso, perché lo stesso non vale con l’Iran o la Russia?».
Temo che quando c’entra Israele le reazioni siano sempre un po’ diverse. Lei è ha insegnato solo a Bologna?
«No, ho fatto il visiting professor praticamente in tutto il mondo e, anzi, ci sono due esperienze che ho ripreso nella mia lettera, perché ritengo siano importanti».
Ce le racconta?
«Ho collaborato a un programma umanitario per quasi dieci anni in Eritrea, dove sono in corso un conflitto e una pulizia etnica al confine con l’Etiopia. Arrivavano feriti da entrambi le parti, li curavamo tutti. Non c’erano pazienti vittime e pazienti carnefici.
C’erano solo pazienti».
Chiaro. L’altro episodio?
«Nel 2018 sono stato in Iran. Le confesso che ho avuto dei dubbi, la mia famiglia è di origine ebraica anche se questo non c’entra proprio niente. Mi sono informato e mi hanno detto che bastava non essere israeliano, mi hanno accolto con tutti i fasti, ho fatto una lezione importantissima. Sebbene io consideri la repubblica islamica uno Stato illiberale, non significa che gli scienziati debbano essere ostracizzati. L’unico modo per tenere dittatori e dissidenti nella stessa aula è la cultura, che è anche la medicina per qualunque guerra civile. Capisce cosa intendo?».
Benissimo. Nessuna ideologia?
«Non voglio entrare nel merito della questione israelo-palestinese. Non sono un politico. Sono un chirurgo ortopedico, faccio un altro mestiere che è quello della ricerca e della chirurgia. Tuttavia, non vedo come una comunità di scienziati debba far percepire che la Palestina di Hamas sia il buono e Israele il cattivo.
Guardi, c’è anche un aspetto sociale molto significativo».
Quale?
«Esiste una percezione sociale che è preoccupante e che è sempre il primo seme dell’antisemitismo: oggi se dico che sono un sionista (attenzione, con il termine sionista non s’intende colui che vuole ammazzare i palestinesi, bensì chi ritiene che lo Stato di Israele abbia il diritto di esistere), ho paura di farlo al bar perché rischio di buscarle. Sposti questo concetto sul piano universitario».
Che succede?
«Un ente neutro come un’università dovrebbe dire: “Bene, lo Stato di Israele è riconosciuto e quindi lo studente israeliano, quello palestinese, quello siriano hanno tutti la stessa dignità”. Non succede.
Se si inizia a dire “quello è cattivo” o “quell’altro è buono”, la percezione sociale cambia».
E ci ritroviamo, magari pure fuori dai rettorati, le manifestazioni from-the-river-to-the-sea...
«Ecco, i movimenti pro-Pal hanno tutto fuorché una soluzione. O meglio, sono per una soluzione estrema del problema. Perché nessuno, o quasi, ricorda che, di fatto, dal 1948 in avanti, sono circa ottant’anni che l’ambiente arabo non riconosce Israele?».
Ha perfettamente ragione: proprio per delegittimare la presenza ebraica in Medioriente, dalla fine del mandato britannico, i palestinesi hanno rifiutato uno Stato proprio almeno quattro volte, le ultime due con Arafat e Abu Mazen. Però adesso?
«Io credo che la scienza debba mettersi nel mezzo e dire: “Io curo chiunque. I bambini di Gaza e i soldati dell’Idf, perché è il mio lavoro”. Glielo ribadisco, la politica farà il suo corso, è qualcosa che non può avvenire a livello accademico. Però se si prendono posizioni del genere vorrei che non lo si facesse a nome mio.
Tutto qua».
Alla lettera le ha risposto qualcuno?
«Non personalmente. Ho letto sulla stampa locale che il rettore mi ha invitato a leggere meglio il testo deliberato dal Senato accademico».