Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Il grande reset nel Medio Oriente Analisi di Luciano Tirinnanzi
Testata: Il Riformista Data: 07 luglio 2025 Pagina: 3 Autore: Luciano Tirinnanzi Titolo: «Il grande reset del Medio Oriente è cominciato. E Donald Trump vuole fare la differenza»
Riprendiamo dal RIFORMISTA, l'analisi di Luciano Tirinnanzi dal titolo "Il grande reset del Medio Oriente è cominciato. E Donald Trump vuole fare la differenza".
Patriot nelle basi americane in Iraq. Dopo aver perso Libano e Siria, l'Iran sposta la sua sfera di influenza sull'Iraq, governato da sciiti. Gli Usa sono presenti nel paese e non vogliono lasciarlo a Teheran.
Il grande reset del Medio Oriente è cominciato, e Donald Trump ci vuole mettere lo zampino. Ecco il perché del suo attivismo nella «guerra dei 12 giorni» tra Israele e Iran, e del suo interesse al piano per la Palestina. Ancora in queste ore, mentre Hamas esamina l’ultima proposta di cessate il fuoco per Gaza, Trump afferma che ci sono le condizioni – già accettate da Israele – per una tregua di «60 giorni» nella Striscia. Vedremo. Intanto, da quel fatidico 7 ottobre 2023 Israele, Palestina, Libano, Siria e Iran sono state investite da un’onda d’urto che ha modificato la mappa politica della regione. Unico Paese dell’area a non aver subito contraccolpi nel domino mediorientale è, per il momento, l’Iraq, il cui governo sciita resta sotto influenza iraniana.
L’asse della resistenza
Sin dal dopo Saddam, Teheran aveva brigato per costruire un «corridoio sciita» proprio lungo l’asse Baghdad-Damasco-Beirut, per garantirsi uno sbocco sul Mediterraneo e una via privilegiata per i commerci. Il che avrebbe garantito agli ayatollah l’egemonia del Medio Oriente, scalzando Israele e Arabia Saudita.Ma dopo il massacro di ottobre quel piano si è complicato, e il potere degli ayatollah si è notevolmente ridotto. Il cosiddetto «asse della resistenza» ovvero la coalizione informale composta da milizie e gruppi politici alleati o sostenuti da Teheran e Mosca, non esiste più. L’Iran non vanta ormai alcuna influenza diretta nella Striscia. Inoltre, ha subìto una débâcle in Libano, con gli alleati di Hezbollah senza più una leadership né un potere militare propriamente detti.
La pedina più importante
Infine, la Repubblica islamica ha perso la pedina forse più importante, la Siria, dove il governo filo-sciita degli Assad è stato rovesciato da una coalizione di feroci miliziani sunniti, che già avevano combattuto gli iraniani proprio in Iraq, e che adesso hanno ottenuto persino la revoca delle sanzioni da parte di Washington. Chi, come Teheran e come Mosca, ha pensato di potersi espandere tranquillamente in Medio Oriente perché l’interesse americano nella regione era scemato, ha commesso una leggerezza. Donald Trump per il Medio Oriente è disposto persino a ritirare il sostegno americano all’Ucraina, e infatti le sottrae sistemi d’arma e munizioni (già spedite) per riposizionarle proprio in Iraq. Lo scorso maggio, ben 20 mila missili destinati alla contraerea di Kyiv sono stati dirottati verso il territorio iracheno – dove Washington ha schierati 2.500 uomini distribuiti in 6 basi militari – in previsione di difendere Israele da possibili futuri attacchi iraniani (che si sono puntualmente verificati a giugno).
I sistemi di difesa Patriot
Adesso, alle forze di Kyiv verrebbero meno anche i potenti sistemi di difesa Patriot, gli unici in grado di intercettare i missili di fabbricazione russa e iraniana (i due Paesi condividono parte delle tecnologie belliche). Un’altra mossa in previsione di attacchi iraniani? Forse, ma c’è dell’altro. Il prossimo 11 novembre si vota in Iraq il rinnovo del parlamento, in un clima politico frammentato e imprevedibile, con possibili serie destabilizzazioni. Il premier sciita Al Adnani, forte dei suoi sforzi diplomatici, cerca un secondo mandato dopo la vittoria del 2022. Nelle sue stesse parole, «per molti anni, l’Iraq ha avuto l’obiettivo di “equilibrare le relazioni estere”, in particolare tra Washington e Teheran. Tuttavia, questo principio non è stato così chiaramente definito in passato come lo è diventato sotto il governo attuale». Insomma, ostenta equidistanza.
Amici e nemici
Una parola che però non piace molto alla Casa Bianca, che ragiona semmai in termini di amici e nemici. Se l’Iraq «non vuole essere trascinato in una specifica sfera d’influenza» come sostiene Al Sudani, questo è un problema per Washington. Sia perché a dicembre dovrebbe concludersi dopo vent’anni la missione di assistenza all’Iraq delle Nazioni Unite (Unami), sia perché entro due anni le forze statunitensi dovrebbero lasciare l’Iraq ponendo fine all’Operazione Inherent Resolve varata nel 2014. Ma l’Amministrazione Trump non vuole che l’Iraq resti in mano a Teheran o, peggio, diventi un secondo Afghanistan. Il fallimento non è contemplato. A costo di restare nella regione a lungo.
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