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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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Libero Rassegna Stampa
05.07.2025 Venezia: collabora con i sionisti, aggredito un professore
Cronaca di Claudia Osmetti

Testata: Libero
Data: 05 luglio 2025
Pagina: 13
Autore: Claudia Osmetti
Titolo: «Venezia: collabora con i sionisti, aggredito un professore»

Riprendiamo da LIBERO del 05/07/2025, a pag. 13, con il titolo "Venezia: collabora con i sionisti, aggredito un professore" la cronaca di Claudia Osmetti. 

Claudia Osmetti
Claudia Osmetti

Benno Albrecht, docente di architettura a Venezia, aggredito dai pro-Pal perché "sionista", deve difendersi da solo. C'è un clima di odio ormai talmente forte che l'aggressione fisica è sempre dietro l'angolo.

«Lo sappiamo, chi sei».
Venezia, vicino a Palazzo Badoer, mercoledì di questa settimana.
C’è un uomo che cammina in una calle, quella è una delle sedi dello Iuav, l’Istituto universitario di Architettura. All’improvviso gli si parano davanti quattro ragazzi, forse sono studenti.
Lui, di certo, è un docente con un contratto da associato.
«Sappiamo che sei amico del rettore».
Non lo fanno passare. I primi spintoni.
Neanche il tempo di capire che cosa cribbio sta succedendo.
«Sappiamo che condividi i suoi progetti in Medioriente».
Le gomitate, le spallate. La situazione che inizia a farsi più pensate, a precipitare.
Se non viene arginata subito può tramutarsi in un’aggressione in piena regola.
Allora il prof reagisce.
Conosce le arti marziali, si difende e, non appena i quattro intuiscono che non è uno sprovveduto, si dileguano.
Scappano via, fanno perdere le loro tracce al punto che oggi, tre giorni dopo, chi effettivamente siano non lo conosciamo ancora.
Magari universitari, magari contestatori di professione: sicuramente, però, propal.
È l’ateneo veneziano a dare notizia dell’accaduto. Il professore racconta cosa gli è capitato, l’università (prima) presenta un esposto informando la digos e dando in questo modo il via a un’indagine che dovrà accertare l’esatta dinamica dei fatti e (poi) manda una comunicazione ufficiale per email all’intero personale nella quale il rettore Benno Albrecht si sfoga: «Quanto successo è gravissimo e frutto di un clima di tensione», scrive, «per me, e anche per altre persone, non è più così semplice camminare per Venezia.
Non sappiamo cosa possa succederci».
È cominciata in sordina e neanche nella Laguna. È cominciata con le prime proteste, legittime nelle rivendicazioni (perché in democrazia si può criticare tutto), un po’ meno nelle modalità.
È cominciata con le barricate, con le tende abusive nei cortili, con le bandiere appese senza autorizzazione dalle finestre o dai balconi.
È cominciata impedendo a chi la pensava diversamente di parlare, gridando a pieni polmoni gli slogan fuori-i-sionisti-dalle-nostre-aule, pretendendo il boicottaggio accademico delle facoltà di Haifa e di Tel Aviv e di Ariel.
È cominciata così, ed è finita con quelle che sembrano delle “ronde” a pieno titolo.
Il prof dell’Iuav mantiene l’anonimato (la ragione è facilmente intuibile per chiunque), la sua vicenda è l’ennesimo campanello d’allarme che passerà inascoltato.
Già è iniziata la corsa alla “giustificazione”: chi si affretta sui social a dire che non c’era premeditazione, che si è trattato di un mero caso; chi sottolinea che gli studenti, quelli iscritti e i cui genitori pagano la retta annuale per farli studiare, non hanno colpe dato che il dì successivo, in un’assemblea autoproclamata non nei locali dell’università, manco a dirlo indetta sul tema di Gaza, i loro rappresentanti hanno voluto «condannare qualsiasi forma di dissenso che generi paura», citando proprio l’episodio appena concluso; chi fa spallucce e non s’indigna più.
Ma la violenza è lì da vedere.
Il sopruso, l’arroganza, la prepotenza idem.
«La nostra scuola ha sempre ospitato il libero scambio di opinioni», continua ancora Albrecht e, ironia della sorte, o probabilmente paradosso della stupidità di chi ha alzato le mani sul suo professore, quelle parole sono doppiamente vere.
Lo sono perché (uno) le università non possono che essere considerate un luogo di dialogo e di confronto e lo sono perché (due) l’Iuav è l’unico ateneo italiano che partecipa al “Gaza recostruction team”, ossia a un piano per la rinascita della Striscia, della Siria e del Libano sotto l’egida delle Nazioni unite e in collaborazione col Mopic, che è il Ministero della pianificazione della cooperazione internazionale per la Palestina dell’Autorità nazionale palestinese e che ha sede a Ramallah (tra parentesi: giusto tre mesi fa, era metà aprile, due ricercatori veneziani sono andati in Cisgiordania per seguire sul campo il progetto).
Sì, è vero: l’ateneo di Albrecht ha accordi coi poli israeliani (la convenzione con l’accademia delle Belle arti di Gerusalemme, per esempio, è stata stanziata fino al 2028, mentre quella con l’Istituto di tecnologia di Holon si è conclusa a inizio giugno), cosa che pure è lecita e persino auspicabile dato che, indipendentemente da come uno la pensa, un conto è la didattica e un altro dovrebbe esserlo la politica.
Ma non si è mostrato neppure indifferente sulla questione della Striscia (e va da sé che il Mopic, nonché la stessa Onu, del tutto imparziali e terzi, rispetto allo Stato ebraico, hanno ben dimostrato di non saperlo essere).
Una considerazione che, tuttavia, non basta, a quanto pare, ai ribelli dal-fiume-al-mare di casa nostra che accusano comunque l’Iuav di “colonialismo” (termine oramai più abusato di “pace” e della sua evoluzione moderna “de-escalation”), che vedono anche (addirittura) nel “Gaza recostruction team” un approccio «troppo occidentale» da cui sfilarsi e che chiedono all’università un atto di coraggio più marcato.
Contro Israele, ovviamente.

 

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