Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Caso Ramy, i Carabinieri si ribellano ai pm Cronaca di Massimo Sanvito
Testata: Libero Data: 05 luglio 2025 Pagina: 7 Autore: Massimo Sanvito Titolo: «I Carabinieri si ribellano ai pm del caso Ramy»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 05/07/2025, a pag. 7, con il titolo "I Carabinieri si ribellano ai pm del caso Ramy", la cronaca di Massimo Sanvito
Sono giudici o attivisti? Nonostante i carabinieri, accusati di aver ucciso Ramy Elgaml siano stati scagionati dalla perizia disposta dalla Procura di Milano, c'è il rischio che i pm chiedano di rinviare a giudizio l'agente che guidava la gazzella. Pura ideologia contro i fatti, puro sostegno della piazza (comunista e islamica) contro le forze dell'ordine.
C’è sconcerto tra le file dell’Arma. Il solo rischio che il carabiniere alla guida della gazzella che diede la caccia a Fares e Ramy per le strade di Milano possa finire a giudizio è impossibile da digerire. Soprattutto alla luce del fatto che i pm titolari dell’inchiesta abbiano completamente stravolto, sconfessandola, la perizia del consulente nominato dalla stessa procura. Un cortocircuito in piena regola che apre scenari potenzialmente devastanti in materia sicurezza: siamo arrivati al punto che chi contrasta il crimine viene messo sullo stesso piano di chi scappa, di fronte a un alt, a 120 chilometri orari.
I rilievi delle toghe al militare in questione - dalla «distanza inidonea, sempre inferiore a un metro e mezzo, a prevenire collisioni con il mezzo in fuga» alla «lunga durata dell’inseguimento», passando per la violazione «delle regole di comune prudenza e diligenza» imposte dal Codice della strada- suonano come una beffa. Peggio: come una licenza, per i delinquenti, a forzare i posti di blocco. «Se la condotta contestata, come si legge, è di natura colposa, occorre dunque individuare una regola di condotta violata, colposamente, durante l’inseguimento. Ci si aspetta, dunque, di trovare una legge, un regolamento, una direttiva o una circolare, che disciplinino esattamente a quanti metri ci si può spingere durante un inseguimento e dimostrare che tale regola non sia stata rispettata dal militare», spiega a Libero Alfredo Gianluca Privitera, segretario generale Sim (Sindacato italiano militari) Carabinieri Lombardia. Di regole, però, non ce ne sono. E come potrebbe essere altrimenti? Oppure si vuole chiedere alle forze dell’ordine di usare il metro quando danno la caccia a qualcuno? «A questo punto dobbiamo immaginare che la condotta colposa contestata non sia altro che la valutazione personale di un pubblico ministero che, autonomamente ed anche al di là di quanto riportato dai propri consulenti, abbia invece stabilito, tra l’altro ex post rispetto ai fatti, di quanti metri bisogna distanziarsi durante un inseguimento», prosegue Privitera. Quanto alla prudenza invocata dai pm (l’articolo 177 del Codice della strada fa riferimento all’obbligo di utilizzare comunque prudenza anche durante i servizi di emergenza nel caso in cui siano accesi i dispositivi acustici e i lampeggianti), il segretario lombardo del Sim Carabinieri fa chiarezza: «La ratio legis di tale obbligo di comune prudenza si ritiene infatti posta a presidio dell’incolumità degli altri utenti della strada e non si ritiene infatti che sia applicabile a colui che dandosi alla fuga è la causa stessa del servizio di emergenza. Ragionando al contrario dovremmo implicitamente riconoscere al soggetto che si dà alla fuga un vero e proprio “diritto di fuggire” e di non essere fermato e ciò poiché tale obiettivo sarebbe raggiungibile esclusivamente superando gli ostacoli che lui stesso con la sua fuga provoca agli operatori all’inseguimento. Un’affermazione che si auspica davvero nessuno abbia l’intenzione di sostenere».
Ecco, appunto. Cos’accadrà ora? Visto l’evolversi del caso Ramy, non ci sarebbe da stupirsi se il carabiniere o il poliziotto di turno, davanti a un balordo che se ne frega della paletta, ci pensi due volte prima di schiacciare sull’acceleratore?
«Il rischio che una decisione giudiziaria di questo tipo possa incidere sulla scelta di altri militari di porsi all’inseguimento è oggettivamente da considerare come possibile», ammette Privitera, anche se «lo spirito di servizio ed il senso del dovere intimamente presenti in ogni carabiniere dovrebbero tuttavia fungere da “scudo” a tale possibilità e questo nella consapevolezza che attraverso quegli inseguimenti e attraverso i sacrifici di quegli uomini in divisa, oggi finiti nel tritacarne giudiziario e mediatico solo per aver svolto il proprio dovere, vi è la collettività civile che merita di essere difesa e di essere sempre protetta».
Il Sindacato italiano militari, nei mesi scorsi, aveva elaborato - attraverso il proprio Dipartimento affari giuridici - una proposta di legge (redatta dal responsabile Giuseppe Milano) per chiedere l’introduzione di un reato ad hoc: quello di fuga pericolosa. Qualcosa che vada oltre la semplice resistenza a pubblico ufficiale, in modo da garantire maggiori tutele per gli uomini in divisa nel caso in cui non sia poi accertata la commissione di reati precedenti alla fuga. Un assist raccolto da Fratelli d’Italia, coi deputati Alessandro Urzì e Riccardo De Corato che rilanceranno il progetto di legge già depositato alla Camera per inasprire le pene di chi scappa dalle forze dell’ordine: non più una semplice sanzione amministrativa ma fino a cinque anni di galera.
E mentre infuria la polemica politica il sindacato si chiama fuori. «Possiamo certificare, perla conoscenza diretta e personale che abbiamo con alcuni di quei militari, che a nessuno di loro né a nessuno di noi interessa il colore politico di chi ci difende e di chi ci attacca», dice Privitera. Che sottolinea: «A noi sta a cuore soltanto porci a difesa della “gente perbene”, adempiendo al nostro dovere e ai valori costituzionali a cui abbiamo giurato senza dover diventare ogni volta strumentale pretesto per battaglie politiche e di piazza. Ma, soprattutto, senza doverci noi in prima persona rimetterci la carriera e drammaticamente purtroppo, a volte, anche la vita».
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