Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Perché Israele incarna ciò che l’Iran non tollera Commento di Rodolfo Belcastro
Testata: Il Riformista Data: 24 giugno 2025 Pagina: 1 Autore: Rodolfo Belcastro Titolo: «Perché Israele incarna ciò che l’Iran non tollera»
Riprendiamo dal RIFORMISTA, il commento di Rodolfo Belcastro, dal titolo: "Perché Israele incarna ciò che l’Iran non tollera"
Rodolfo BelcastroIsraele è l'unica democrazia del Medio Oriente e per questo motivo è attaccata su più fronti costantemente dal 1948. Ai regimi islamici, dittature e stati falliti, non va giù il successo dello Stato ebraico. La libertà che incarca Israele è il nemico principale di una dittatura come l'Iran.
Israele incarna tutto ciò che il regime iraniano non è e soprattutto non può permettersi di diventare. È questa la chiave per leggere l’operazione “Rising Lion”, il raid aereo ad alta intensità che ha colpito in profondità l’infrastruttura nucleare e militare iraniana. Oltre l’aspetto tattico, oltre l’efficacia operativa di un attacco fulmineo e chirurgico, l’azione di Tel Aviv rappresenta un gesto politico e identitario: la riaffermazione di un modello di civiltà che la Repubblica Islamica considera intollerabile nella sua stessa esistenza. Per Teheran, Israele non è soltanto un avversario militare: è un’anomalia ideologica, un corpo estraneo che dimostra, con la sola propria presenza, che un altro Medio Oriente è possibile. Un Medio Oriente aperto, pluralista, competitivo, con istituzioni trasparenti, ricerca scientifi ca avanzata e un’alleanza stabile con l’Occidente democratico. Un luogo dove le minoranze religiose hanno voce, dove la leadership politica è frutto di consenso e alternanza, dove il dibattito, anche acceso, è parte integrante del tessuto nazionale. Tutto ciò che l’Iran combatte quotidianamente al proprio interno, viene incarnato all’esterno da Israele. Non è quindi una questione di confi ni o di armamenti, ma di incompatibilità sistemica. L’operazione militare degli scorsi giorni si inserisce esattamente in questo solco. Israele ha dimostrato, ancora una volta, di non accettare il principio della deterrenza passiva. Il dogma del Never Again, scolpito nella memoria collettiva dello Stato ebraico, non è una frase da museo: è una dottrina di sicurezza. Nessuna minaccia alla sopravvivenza di Israele può essere tollerata, né sottovalutata. E il programma nucleare iraniano, nonostante le narrazioni uffi ciali, aveva già superato da tempo la soglia della legittimità. Il grado di arricchimento dell’uranio, oltre il 60%, non lasciava più dubbi sulle reali intenzioni del regime. L’intervento militare, condotto da Israele con l’appoggio strategico statunitense, compreso l’uso di bombe bunker buster fornite da Washington, ha modifi cato radicalmente lo scenario. Non si è trattato solo di un gesto simbolico, ma di una mossa congiunta e cali- brata all’interno di un fronte occidentale che, pur tra mille cautele, ha scelto di sostenere la linea rossa tracciata da Israele. È un segnale anche per gli alleati NATO: l’Iran non può più giocare indisturbato con l’ambiguità nucleare, e il tempo del disimpegno strategico, almeno su questo fronte, sembra fi nito. Anche i Paesi europei, tradizionalmente più inclini al compromesso, sono ora chiamati a riconoscere che l’illusione di un Iran “normalizzabile” si è infranta contro la realtà. Questa realtà è fatta anche della progres- siva sconfi tta sul campo dei principali proxy regionali di Teheran. Bashar al-Assad, pur ancora al potere in Siria, è oggi più un burattino che un attore, sopravvissuto grazie all’intervento russo ma privo di ogni legittimità internazionale. Hezbollah, in Libano, è sempre più isolato e logorato da una crisi economica e sociale che ha svuotato il suo consenso interno. E Hamas, dopo l’attacco del 7 ottobre e la conseguente risposta militare israeliana, ha perso buona parte delle sue capacità operative e della sua credibilità come attore politico. L’asse della “resistenza” si sta sgretolando lentamente, lasciando l’Iran più esposto, più solo e più aggressivo. In questo vuoto strategico si inseriscono anche gli equilibri globali. La Russia, assorbita dalla guerra in Ucraina, sfrutta la relazione con Teheran come leva tattica, ma non ha né la forza né l’interesse per difendere l’Iran fi no alle estreme conseguenze. Anche considerando che in Israele 2 milioni di persone parlano russo ed hanno una forte radice identitaria con Mosca. La Cina, pur cercando di mediare e mantenere aperti i canali diplomatici, ha mostrato chiaramente di non volersi far trascinare in uno scontro asimmetrico che metterebbe a rischio i suoi interessi economici con l’Occidente e il Golfo, aree preziose per le sue rotte energetiche e commerciali. E così l’Iran scopre che il fronte antioccidentale che immaginava compatto è, in realtà, fragile, opportunista e pieno di contraddizioni. Secondo fonti diplomatiche, Teheran potrebbe ora essere costretta a rivedere completamente la propria postura: fine del doppio gioco, abbandono delle ambiguità sul nucleare, e forse accettazione di un compromesso imposto, come il trasferimento dell’arricchimento in Paesi terzi (Russia, Arabia Saudita) con livelli compatibili con l’uso esclusivamente civile. Una ritirata negoziale mascherata da accordo tecnico. Resta ovviamente aperta la possibilità di reazioni scomposte. Il regime iraniano, nella sua fase più fragile e ideologicamente isolata, potrebbe cercare l’escalation indiretta: sabotaggi nel Golfo Persico, minacce allo Stretto di Hormuz, aumento della pressione attraverso i miliziani in Iraq, Yemen e Libano, con l’obiettivo di colpire la stabilità energetica mondiale. È un gioco già visto, ma questa volta con una soglia di tolleranza molto più bassa da parte di Washington e delle capitali europee, sempre più consapevoli che l’arma nucleare in mano agli Ayatollah non è una variabile negoziabile. Ma ciò che rende questa fase così significativa è il ritorno di Israele a un ruolo che va oltre l’autodifesa: quello di avamposto della democrazia in un’area dominata da regimi illiberali. La sola esistenza di Israele è uno sfregio alla narrazione dominante a Teheran: dimostra che è possibile un Paese libero e moderno, sicuro senza essere oppressivo, armato senza essere aggressore, occidentale senza essere coloniale. È questa la vera minaccia per l’Iran: l’esempio. Ed è per questo che Israele, ancora una volta, ha agito. Non solo per fermare una bomba, ma per difendere un’identità. Perché in Medio Oriente non si combatte solo per la terra. Si combatte per la verità. E quella di Israele è, da sempre, una verità scomoda per chi fonda il proprio potere sulla menzogna.
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