Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Noi virtuosi rammolliti a cui piace far fare agli altri il lavoro sporco Newsletter di Giulio Meotti
Testata: Newsletter di Giulio Meotti Data: 24 giugno 2025 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Noi virtuosi rammolliti a cui piace far fare agli altri il lavoro sporco»
Riprendiamo l'articolo di Giulio Meotti, dalla sua newsletter, dal titolo: "Noi virtuosi rammolliti a cui piace far fare agli altri il lavoro sporco".
Giulio MeottiSchierandosi con Israele Trump ha fatto la scelta che tutti si aspetterebbero da un leader, l'eliminazione diretta di una minaccia mortale attraverso l'uso della forza. I leader europei stanno a guardare, come sempre.
Quel “basta” lo ha pronunciato il più improbabile interventista, Donald Trump.
I B-2 americani hanno sganciato dodici GBU 57, superbombe da quattordici tonnellate: dieci su Fordow, il sito atomico più prezioso dell’Iran, e due su Natanz, altro snodo del nucleare. Una raffica di cruise lanciati dalla Navy americana ha poi colpito Isfahan.
Resta da vedere se l’Iran è stato in grado di creare un programma atomico parallelo di cui non si conosce l’esistenza: dopo tutto, la centrale di Fordow è stata scoperta soltanto nel 2009, ben tre anni dopo la sua costruzione.
E resta da vedere se la Repubblica Islamica sopravviverà a questa crisi (sono convinto che il regime islamico abbia una forte base di consenso interno).
“Dai Fratelli Musulmani all'Isis passando per al Qaeda: la matrice rappresentata dalla rivoluzione a Teheran nel 1979 è il fattore per eccellenza che ha galvanizzato l'espansione dell'islamismo in tutto il mondo per mezzo secolo” dice Gilles Kepel a Le Figaro. “Il suo crollo sarebbe un colpo durissimo per tutte le utopie islamiste, paragonabile a quello dell'URSS per il comunismo".
Il compito è immenso. Ma come diceva Aristotele, “chi comincia è a metà dell'opera”. E l’Europa non è mai entrata in gioco.
Mentre l’America mandava i B-2, sul magnifico lago di Ginevra c’era l’incontro tra i ministri degli esteri di Francia, Germania, Inghilterra e Iran. C’era anche Kaja Kallas, alto rappresentante della politica estera Ue e unica donna. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghachi, non le ha stretto la mano, evitando il contatto fisico.
Nessun diplomatico europeo è sembrato turbato che il ministro degli Esteri europeo fosse trattato come un cammello, come quando Erdogan lasciò senza sedia Ursula e Charles Michel fece spallucce. E Ursula, senza sedia, bofonchiò: “Deplorevole, ma ho scelto di non peggiorare la situazione”.
Poche ore dopo, il ministro degli Esteri inglese, il laburista David Lemmy, si rivolgeva così all’Iran: “Non abbiamo partecipato agli attacchi” (di Israele e America).
Come dire, noi struzzi non c’entriamo niente.
Quando Trump fece fuori il generale iraniano Soleimani e il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas si affrettò a smarcarsi dal raid (“non aiuterà a ridurre le tensioni”) e a ricordare che “come europei, abbiamo canali di dialogo affidabili con ambo le parti”.
Vorrebbero farci credere che la mano al petto della Kallas, un cenno del capo o un sorriso, sarebbe un “segno di rispetto” (in Iran, prima del 1979 e di Khomeini, le donne stringevano la mano agli uomini).
Quando i reali di Spagna hanno ricevuto il corpo diplomatico a Palazzo Reale, l'ambasciatore della Repubblica islamica, Hassan Ghashghavi, si è avvicinato al re e alla regina, stringendo la mano a Filippo, ma non aLetizia. Nessuno scandalo, anche in questo caso.
E prima fu Ségolene Royal, la sciocca ministro dell’Ambiente francese, che si era dimenticata che in quanto donna non poteva dare la mano agli iraniani. Così decise di darsi a una sonora risata, la reginetta di bellezza morale.
Incredibile come la diplomazia europea si sia abituata alla sharia.
E pensare che l’allora presidente del Senato belga, Anne-Marie Lizin, cancellò un incontro con i diplomatici iraniani per il loro rifiuto di stringerle la mano. Sapete che anno era? 2005. Secoli fa.
In The Unveiling of Secrets, un opuscolo poco conosciuto scritto subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e diffuso tra i seminari di Qom, Khomeini attaccava i politici iraniani con i loro “cappelli all’europea” che passeggiavano “sui viali adocchiando ragazze nude”.
A metà giugno, le forze israeliane hanno lanciato un'offensiva senza precedenti contro l’Iran, prendendo di mira infrastrutture militari e nucleari. Il messaggio da Gerusalemme era inequivocabile: la deterrenza israeliana è reale e non è soggetta a concessioni diplomatiche da nessuno.
L'Unione Europea ha risposto con il suo solito mix di esitazione e linguaggio vuoto. Bruxelles ha lanciato appelli rituali alla "moderazione da tutte le parti", evitando accuratamente qualsiasi dichiarazione che potesse offendere Teheran o mostrare troppa solidarietà a Israele.
E i diplomatici tedeschi hanno cercato di tenere nascosta persino una riunione con la dissidente iraniana Masih Alinejad.
L’Europa si è consumata le corde vocali a urlare “no” alla guerra e mettere in guardia sul “pericolo nucleare”, ma sempre aspettandosi che la liquidazione della minaccia nucleare iraniana fosse compiuta da altri.
L’esasperante inerzia europea è figlia dell’impotenza a sua volta frutto di un grande malinteso cresciuto all’ombra della tutela militare e politica statunitense, progressivamente erosasi dal 1989 e ora apertamente in discussione.
L'analista di sicurezza Claude Moniquet lo ha detto senza mezzi termini in un'intervista a Euronews: l'Europa è "in disparte". Mentre Washington, Gerusalemme e gli attori arabi plasmavano il conflitto in corso, l'Europa non era presente. Non stava stabilendo termini, non proponeva soluzioni, non guidava nemmeno la diplomazia. Stava commentando a distanza di sicurezza, con parole formulate per non offendere nessuno e non proteggere nulla.
Se i piloti israeliani non avessero bombardato il progetto nucleare iraniano, chi altro avrebbe potuto farlo? La RAF? I francesi? I tedeschi? Dopo tutti questi anni e tutti questi “colloqui”, l'unico paese che alla fine è intervenuto è stato quello con più peso in gioco: quello che l'ayatollah Khamenei e i suoi predecessori hanno sempre affermato di voler annientare come un “tumore”.
Gli stessi commentatori che hanno trascorso mesi a blaterare di "proporzionalità" quando Hamas ha lanciato razzi contro le città israeliane dagli ospedali di Gaza ora parlano di “uso sproporzionato della forza”.
Ma Israele agisce perché deve, perché la sua sopravvivenza lo esige. L'Europa non agisce perché non sa più cosa rappresenta.
E le implicazioni sono evidenti. Un'Europa che non riesce a difendere i propri alleati all'estero non difenderà le proprie fondamenta in patria.
Il famoso commento di Bertolt Brecht dopo la repressione della rivolta operaia a Berlino Est nel 1953 oggi si applica a noi:
“Dopo la rivolta del 17 giugno
il segretario dell'Unione degli scrittori
fece distribuire nella Stalinallee dei volantini
sui quali si poteva leggere che il popolo
si era giocata la fiducia del governo
e la poteva riconquistare soltanto
raddoppiando il lavoro. Non sarebbe
più semplice, allora, che il governo
sciogliesse il popolo e
ne eleggesse un altro?
Alcuni governanti europei, infatti, oggi hanno “Das Houellebecq-Problem”, come lo chiama la Welt: Emmanuel Macron si sta schierando con gli islamici e contro gli ebrei per via delle “dinamiche demografiche francesi”.
Lungo i corridoi del Paris Air Show, il salone aeronautico francese che non è la fiera del pizzo, gli stand di Israel Aerospace Industries, Rafael, Uvision, Elbit e Aeronautics sono stati appena recintati da palizzate di due metri di altezza ricoperte di panno nero, impedendo l'accesso (e la semplice visuale) agli stand d’Israele, nelle stesse ore in cui l’aviazione israeliana bombardava i siti atomici iraniani.
Geniali, questi francesi.
Quei pannelli neri me ne hanno ricordati altri.
Quelli usati dal governo italiano per coprire le statue dei nudi Capitolini a Roma in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani. Al tempo, su Le Figaro, la chiamai “l’Italietta che si sottomette all’Iran”.
Nel 1976, l'Iraq di Saddam Hussein acquistò dalla Francia un reattore nucleare. Mentre l'Iraq e la Francia sostenevano che il reattore, chiamato “Osirak” dai francesi, era destinato alla “ricerca scientifica pacifica”, Israele a ragione la vedeva diversamente e distrusse il reattore nel 1981.
La Germania è stata decisiva nell’assistenza al programma nucleare iraniano.
La dhimmitudine europea è stata anche atomica.
Dal presidente svizzero Alain Berset al presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, le nostre cancellerie sono specializzate in telegrammi di congratulazioni per l’anniversario della Repubblica islamica.
Nelle piazze europee in questi giorni non c’è una sola manifestazione pro Israele e neanche della diaspora iraniana: soltanto bandiere islamiche e slogan di sottomissione. E bandiere israeliane bruciate, in Italia, non a Teheran.
I leader europei cercano di atteggiarsi a superiorità morale, guardando Israele dall'alto in basso, eppure, in realtà, contano su questo piccolo stato di 9,5 milioni di anime per, come ammesso dal cancelliere tedesco, "fare il lavoro sporco" e sconfiggere la minaccia islamista all'Occidente.
Friedrich Merz, cancelliere tedesco
La Germania, dopo tutto, si è rifiutata persino di schierare i suoi jet militari per attaccare le posizioni dello Stato Islamico in Iraq. E quando l’allora Ministro della Difesa tedesco, Ursula von der Leyen, ha visitato l'Iraq per parlare con gli ufficiali tedeschi che addestravano i combattenti curdi, ha assicurato alle sue truppe che non si sarebbero avvicinate alle zone di battaglia. Ha aggiunto che per l'esercito tedesco “la sicurezza è la massima priorità”. John Vinocur ha scritto sul Wall Street Journal che la Germania, uno dei maggiori produttori di armi al mondo, ha chiarito ancora una volta che, anche di fronte a un nemico barbaro come l’Isis, è un attore non letale. “Diplomatici in uniforme”, così sono stati definiti i soldati tedeschi.
In quale mondo immaginario vivono i nostri statisti sotto il ricatto del multiculturalismo, del timore della propria ombra e della propria viltà culturale figlia, temo, di troppo benessere e libertà?
giornalista che, in solitaria, prova a raccontarci cosa sia diventato e dove stia andando il nostro Occidente. Uno spazio unico dove tenere in allenamento lo spirito critico e garantire diritto di cittadinanza a informazioni “vietate” ai lettori italiani (per codardia e paura editoriale).
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