Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Teheran bombarda le moschee dentro Israele Cronaca di Amedeo Ardenza
Testata: Libero Data: 22 giugno 2025 Pagina: 1 Autore: Amedeo Ardenza Titolo: «Gli ayatollah bombardano le moschee dentro Israele»
Riprendiamo da LIBERO di oggi, 22/06/2025, a pag. 7, con il titolo "Gli ayatollah bombardano le moschee dentro Israele", la cronaca di Amedeo Ardenza.
Due missili balistici lanciati dall'Iran hanno colpito, a Haifa, le moschee più antiche della città, ferendo religiosi e fedeli. Gli islamisti non si fanno scrupoli a uccidere musulmani, nella loro guerra di odio contro Israele e contro tutti gli israeliani.
Due missili balistici lanciati dall'Iran hanno colpito, a Haifa, le moschee più antiche della città, ferendo religiosi e fedeli.
Era già successo il 7 ottobre. Durante l’assalto dei terroristi di Hamas contro il sud d’Israele i tagliagole gazawi non dimostrarono alcuna pietà per i loro confratelli islamici. Che si trattasse di arabi israeliani o di beduini, a loro fu riservata la stessa sorte degli ebrei. Solo da Rahat, città meridionale del distretto di Be’er Sheva, 21 beduini furono uccisi e sei rapiti. La mattina del 7 ottobre 2023, il medico israeliano Tarek Abu Arar stava guidando dalla sua abitazione ad Ar’ara BaNegev, città beduina a sud di Be’er Sheva, verso Ashqelon, città costiera meridionale, per coprire un turno di emergenza al locale Centro Medico Barzilai. Abu Arar era uscito presto di casa ma i terroristi avevano fatto prima di lui. La radio aveva parlato di un attacco missilistico iniziato all’alba, niente di straordinario per la regione più vicina a Gaza, ma la mattanza non era ancora iniziata e nulla lasciava presagire il disastro imminente. Sulla strada il medico vede un uomo riverso. Un soldato fa cenno chiedendo aiuto. Il medico accosta e scende dall’auto. Si avvicina per soccorrerlo ma qualcuno gli spara al petto. È un’imboscata: Abu Arar, che indossa un giubbotto antiproiettile, si accascia e comincia a recitare le sue ultime preghiere. Da dietro i cespugli sbucano dieci uomini armati di kalashnikov. Il soldato non è un soldato ma un terrorista.
Sono contenti: «Abbiamo un ostaggio: le Idf (le Israel Defense Forces) non ci possono più sparare addosso». Legano il medico alla segnaletica stradale e uno dei terroristi gli spara a una gamba. Adesso sono sicuri che l’ostaggio non scapperà mentre può godersi lo “spettacolo” del commando che spara a tutte le auto di passaggio. La mattanza ha inizio. Abu Arar ha avuto “fortuna”: dopo circa due ore arrivano proprio le Idf, che, racconterà lui stesso «hanno neutralizzato i terroristi e mi hanno salvato appena in tempo applicando un laccio emostatico sulla gamba ferita. L’ambulanza mi ha trasportato al Soroka Medical Center».
Abu Arar non è morto né è stato portato a Gaza. Sorte diversa ha avuto la famiglia di Abu al-Hija, un 67enne di Tamra, nel nord di Israele, che in uno dei primi attacchi missilistici iraniani contro lo stato ebraico ha perso la figlia, Manar, 45 anni, due nipoti, Shada, 20 anni, e Hala, 13, e la loro zia, Manal Diab, 41 anni. Non è vero quello che hanno scritto alcuni e cioè che la famiglia di Abu al-Hija è morta perché agli arabi lo stato non ha fornito misure di sicurezza. Le quattro donne avevano raggiunto per tempo il mamad, la stanza rinforzata presente per legge nelle case degli israeliani. Purtroppo, il missile caricato con centinaia di chili di esplosivo ha centrato proprio quella stanza e tre piani della casa dei Khatib sono stati sbriciolati. È vero che tante città israeliane non dispongono di sufficienti rifugi sotterranei ma si tratta di un problema legato all’età delle costruzioni, non alla lingua usata dalle persone che le abitano.
E come già durante il 7 ottobre, anche la comunità araba israeliana, circa il 20 per cento della popolazione complessiva, paga lo scotto di vivere in un paese in guerra. Un paese dove la convivenza tra i diversi gruppi non è ideale – ma quale paese in guerra è sereno al suo interno? – ma funziona a differenza della propaganda dei nemici di Israele. A vedere i ripetuti lanci di missili dall’Iran su Tamra, sull’ospedale di Be’er Sheva (65 feriti), dove alta è la percentuale di personale medico arabo che ogni giorno lavora, come già Tarek Abu Arar, con i colleghi ebrei, sulla moschea Al Jarina di Haifa (23 feriti) viene da pensare che forse a Teheran c’è chi cerca di colpire i musulmani «dell’occupante sionista» vuoi per punirli, vuoi per creare dissidio interno.
Lo scorso luglio un missile di Hezbollah ha ucciso dodici bambini a Majdal Shams, un villaggio druso del Golan. La milizia sciita libanese ha negato la responsabilità di quella strage. A scusarsi fu invece il Washington Post dopo aver pubblicato una foto delle dodici bare bianche con il titolo “Israele colpisce un obiettivo in Libano”.
«Il titolo e il sottotitolo non fornivano un contesto adeguato», fu la formula usata l’indomani dal quotidiano.
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