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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio Rassegna Stampa
05.09.2003 Non combattere contro i terroristi
signfica fare il loro gioco

Testata: Il Foglio
Data: 05 settembre 2003
Pagina: 4
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «L'errore palestinese è trattare sempre da vincitori senza vincere mai»
Riportiamo l'articolo di Emanuele Ottolenghi pubblicato su Il Foglio venerdì 5 settembre 2003.
Ancora una volta, i palestinesi dimostrano di non saper perdere. Sempre, a partire dalla Grande rivolta araba del 1936-’39, di fronte alla sconfitta si presentano al tavolo delle trattative con pretese da vincitori. La magnanimità dei loro avversari fu sempre frustrata dalle assurde pretese di chi le guerre le aveva perse senza accorgersene. Questo atteggiamento si manifesta nella ricorrente arroganza di dettare condizioni ed esigere concessioni come atti dovuti, senza essere disponibili a offrire nulla in cambio. Se tale comportamento premia di rado i vincitori, di sicuro non giova ai vinti. Ma il "Vae victis" di Brenno è una lezione mai imparata nel mondo arabo con la
conseguenza che le occasioni sfumano. Accadde nel 1937, nel ’48, nel ’67 e nel 2000. Sta per accadere di nuovo con la road map. E gli arabi hanno sempre perso, nonostante si illudano che il tempo giochi a loro favore. Nel 1939 li salvò l’ingenua illusione inglese che soddisfacendo gli arabi si potesse prevenire una politica filonazista. Gli arabi ottennero parte di quel che volevano e si allinearono comunque a Berlino. Nel ’48 gli arabi si opposero alla legittimità internazionale dell’Onu credendo che la forza avrebbe ottenuto quanto il diritto loro negava, con il risultato che invece di rinunciare a metà della Palestina ne persero tre quarti. Non paghi della lezione – e spronati dall’arrendevolezza occidentale a imporre a Israele assurde concessioni territoriali – gli arabi rifiutarono la pace nel ’49 e prepararono la rivincita. Le concessioni non avvennero e il barometro diplomatico cambiò a loro discapito con la campagna di Suez. L’ossessiva preferenza per ciò che è desiderabile a ciò che è realisticamente possibile portò gli arabi a una nuova folle avventura regolarmente naufragata nel ’67 con ulteriori perdite territoriali. Ogni volta, di fronte all’ineluttabile giudizio della storia, i leader arabi prima e palestinesi poi hanno cercato
di salvare la faccia persa in battaglia nei corridoi della diplomazia. Sbagliando sempre perché senza eccezioni essi hanno preteso che trattati e accordi ribaltassero le conseguenze delle guerre e dessero loro, gli sconfitti, l’onore e le spoglie della vittoria. L’Intifada non fa eccezione. Dopo tre anni di futili massacri i palestinesi, rimasti ancora una volta con un pugno di mosche, avrebbero dovuto riconoscere la sconfitta e accogliere la road map come l’ennesima offerta generosa dell’Occidente. I palestinesi
avrebbero dovuto quindi fare la loro parte nella road map rimuovendo la causa prima del corrente conflitto, cioè il terrorismo. Invece, illusi dall’atmosfera favorevole dell’opinione pubblica occidentale che sembra
disposta a scendere a patti col terrorismo, hanno perso un’altra chance. E’ bastata un’estate di tregua perché i palestinesi si dimenticassero di aver perso e si mettessero a dettar condizioni a Israele, a presentarsi come vittime e a disattendere i loro obblighi. Bravi nel produrre pretesti per non combattere il terrorismo, e forti del sostegno di un’opinione pubblica internazionale intimidita dal terrorismo e dalla paura che prima o poi cominci anche a casa propria, i palestinesi hanno preteso senza offrire nulla in
cambio. La tregua siglata tra fazioni palestinesi (e non con Israele) non ha tenuto, visto che serviva non a deporre le armi con dignità, come si concede agli sconfitti, ma per prepararsi a un nuovo round di inutili massacri. Il massacro è puntualmente avvenuto, non a causa della violenza israeliana come i
giornalisti malati di sindrome di Stoccolma scrivono in Occidente, ma a causa dell’incapacità palestinese di rispettare la tregua da loro stessi proclamata. Così Israele ha ottenuto il permesso americano (notato il silenzio di Washington dell’ultima settimana?) di riavviare la politica delle uccisioni mirate, che aveva con successo colpito al cuore l’infrastruttura terroristica prima del giugno 2003, costringendo Hamas ad accettare almeno temporaneamente la tregua. A dispetto degli strilli dei critici a oltranza, la tecnica delle uccisioni mirate si è subito dimostrata efficace, offrendo importanti lezioni a
chi in Occidente vuole combattere il terrorismo. Ma che l’Occidente quelle lezioni sia preparato a capirle rimane in dubbio.
Partiamo dai risultati. La risposta di Israele, arrivata dopo l’ennesima strage di innocenti perpetrata dal terrorismo palestinese, trova l’approvazione dell’Amministrazione americana e ha persino svegliato gli europei, che sia pur con grave e connivente ritardo si stanno dando da fare a tagliare i fondi all’idra terroristica di Hamas in Europa. I leader di Hamas, la cui vocazione al martirio è inversamente proporzionale alla retorica con cui mandano i loro adepti a massacrare innocenti, si sono subito nascosti per sfuggire alla morte. In più si sono detti disposti a rinegoziare la tregua. Peccato che la lezione non l’abbiano capita: essi si ostinano a dettare condizioni, senza offrire una contropartita. In quanto all’Autorità palestinese, anch’essa farebbe bene a negoziare una resa dignitosa con Israele. Abu Mazen dovrebbe chiedere concessioni a Israele in cambio dell’adempimento della fase preliminare della road map, che esige di distruggere le infrastrutture delle organizzazioni terroristiche. La rapida sparizione dei leader di Hamas, l’efficacia con cui Israele li ha colpiti, il relativo silenzio americano ed europeo e la volontà occidentale di colpire
la struttura finanziaria di Hamas sono il risultato dell’uso calibrato della forza da parte di Israele, non di concessioni fatte sotto minaccia della violenza. In più, le uccisioni mirate dell’ultima settimana hanno privato
l’organizzazione di importanti figure. Le lezioni da imparare sono quattro. Primo, per colpire così efficacemente, Israele necessita di ottima intelligence. Ciò significa saper penetrare l’infrastruttura del terrore e avere un esercito di informatori sul proprio libro paga facendo ricorso quindi a Humint e non solo a Digint come principalmente fa l’Occidente. L’accesso a Humint spiega la fuga dei leader di Hamas, che ben sanno di non potersi fidare di nessuno, nemmeno dei familiari ormai. Per poter sconfiggere il terrorismo, l’Occidente deve fare altrettanto e imparare a infiltrare le organizzazioni,
corrompendone gli operativi, utilizzando strumenti di pressione psicologica e
finanziaria su familiari e conoscenti perché rivelino utili informazioni, addestrando persone che possano mimetizzarsi nell’ambiente terroristico e carpirne i segreti e conoscendone lingua e mentalità a sufficienza da captarne i messaggi e divinarne le intenzioni. La seconda lezione è che l’idra del terrorismo dipende dalle capacità operative dei leader. Eliminati gli esperti di esplosivi, gli ideologi, e le guide spirituali, uccisi i tecnici e gli psicologi del terrore, eliminate le strutture logistiche, i terroristi sono soldati disarmati. La terza lezione è che le uccisioni mirate colpiscono la struttura terroristica molto di più che azioni indiscriminate, ma causano molto meno danno alla popolazione innocente e alle infrastrutture civili di
quanto non possa fare un’operazione bellica convenzionale. Nell’ambito dello scontro asimmetrico contro il terrorismo quindi le uccisioni mirate rimangono l’azione di guerra meno crudele e più consona al diritto internazionale. L’Occidente dovrebbe adottarle, colpendo globalmente i leader del terrore. La quarta lezione, che lo Stato italiano imparò non senza sbagli nella lotta alle Brigate rosse e alla mafia, è che i terroristi non gettano le armi preferendo il negoziato non violento di fronte alla magnanimità. Soltanto la determinazione dello Stato a non capitolare di fronte alla violenza li fa col tempo desistere. Israele non paga un altissimo prezzo di sangue perché adotta la tecnica sbagliata, ma perché di fronte alla simpatia mostrata loro dall’opinione pubblica occidentale i terroristi credono di poter ottenere con la violenza ciò che nel rispetto della legge e della diplomazia nessuno sarebbe
mai disposto a concedergli.
Chiedere a Israele di smettere senza contropartita significa nutrire la proverbiale illusione araba di poter vincere anche quando si perde. Significa quindi fare il gioco dei terroristi. Che nel linguaggio dei semplici significa
diventarne complici.
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