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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero Rassegna Stampa
02.06.2025 Quanti morti sulla coscienza di chi da mesi giustifica coloro che fuggono ai posti di blocco
Editoriale di Daniele Capezzone

Testata: Libero
Data: 02 giugno 2025
Pagina: 1
Autore: Daniele Capezzone
Titolo: «Quanti morti sulla coscienza di chi da mesi giustifica coloro che fuggono ai posti di blocco»

Riprendiamo da LIBERO di oggi 02/06/2025, a pag. 1/12, con il titolo "Quanti morti sulla coscienza di chi da mesi giustifica coloro che fuggono ai posti di blocco", l'editoriale di Daniele Capezzone. 

Confessioni di un liberale. Daniele Capezzone al Caffè della Versiliana  Giovedì 14 luglio, ore 18:30 - Versiliana Festival
Daniele Capezzone

Tre magrebini su BMW forzano un posto di blocco e vanno a sbattere contro un'auto ignara, facendo un morto. Altro sangue sulla coscienza di tutti i commentatori e i politici di sinistra che, per difendere Ramy Elgaml, hanno accusato i Carabinieri e giustificato chi viola i posti di blocco.

La scia di sangue non si ferma più. A novembre scorso, il caso Ramy: con il giovane egiziano che, per sfuggire a un posto di blocco, scatena un inseguimento nel cuore di Milano, e finisce per schiantarsi. Pochi giorni fa, la vicenda di Momo, un amico di Ramy: anche qui con un giovane nordafricano finito contro un semaforo: vittima non di un incidente stradale, ma della sua scelta sbagliata di fuggire per il solo fatto di aver visto una pattuglia.
E ieri, tragicamente, si è registrato il più classico “non c’è due senza tre”, ma con una terribile novità, perché stavolta la vittima è totalmente innocente. Ha infatti perso la vita in provincia di Bologna un uomo che viaggiava insieme a sua moglie (quest’ultima è ora in prognosi riservata): la loro auto è stata colpita in pieno dalla macchina di tre sciagurati (il guidatore, a quanto pare, di origine magrebina), fuggiti all’impazzata da un controllo dei carabinieri. Per favore, nessuno parli di “tragica fatalità”, nessuno scomodi eufemismi o attenuazioni consolatorie. Qui siamo davanti a un caso da manuale di omicidio stradale.
E – sullo sfondo – nessuno può toglierci dalla testa e dalle orecchie ciò che abbiamo dovuto sentire in tv e leggere sui giornali per sei lunghi mesi, a partire dal caso Ramy. Con i migliori cervelli della sinistra, con i più celebrati (e autocelebrati) commentatori progressisti impegnati – chi più spavaldo, chi più imbarazzato – a giustificare chiunque, al solo apparire di un poliziotto o di un carabiniere, sentisse o senta l’insopprimibile esigenza di fuggire.
Ne abbiamo ascoltate – da allora a oggi – di tutti i colori: chi si arrampicava sugli specchi dei consueti sociologismi («non li abbiamo capiti, non li abbiamo ascoltati, non li abbiamo integrati»); chi colpevolizzava le forze dell’ordine; chi dava lezioni di inseguimento; chi alimentava cortine fumogene per coprire il cuore della questione.
Cuore della questione che qui sintetizziamo così: non si scappa dalle forze dell’ordine. E soprattutto: chi fugge all’impazzata mette in pericolo se stesso e gli altri.
E allora diciamolo chiaramente.
La responsabilità penale è personale: e dunque saranno i tre fuggiaschi di ieri (a partire dal guidatore) a dover rispondere di omicidio. Ma c’è anche una diversa responsabilità, di natura morale e politica, che investe una serie di onorevoli e di commentatori che, dai giorni del caso Ramy, ancora devono fare ammenda. Sarebbe l’ora che riconoscessero come proprio le loro parole di allora, i loro «che male c’è a fuggire», possono aver indotto altri a commettere di nuovo il medesimo tragico errore.
Vale per Ramy, vale per Momo, e vale soprattutto per il povero cittadino di ieri, vittima dell’altrui sconsideratezza. Queste morti dovrebbero pesare anche sulla coscienza di chi ha irresponsabilmente parlato a vanvera.

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