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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Riformista Rassegna Stampa
31.05.2025 Ostaggi e controllo di Gaza sono un ricatto. Ecco perché Hamas rifiuta sempre la tregua
Commento di Ugo Volli

Testata: Il Riformista
Data: 31 maggio 2025
Pagina: 4
Autore: Ugo Volli
Titolo: «Ostaggi e controllo di Gaza sono un ricatto. Ecco perché Hamas rifiuta sempre la tregua»

Riprendiamo dal RIFORMISTA di oggi, 31/05/2025, a pagina 4, il commento di Ugo Volli, dal titolo: "Ostaggi e controllo di Gaza sono un ricatto. Ecco perché Hamas rifiuta sempre la tregua".

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Ugo Volli

Sono fallite di nuovo le trattative per una tregua - Shalom

Hamas ha rifiutato una proposta americana, che prevedeva il rilascio di ostaggi in cambio di una tregua di 60 giorni e ritiri israeliani. Il rifiuto riflette la logica del martirio islamista, il bisogno di vittoria simbolica, l’uso strategico degli ostaggi e l’influenza iraniana. Ad Hamas interessa sopravvivere usando ogni mezzo; per il gruppo terroristico, più gazawi muoiono, meglio è, così da far crescere la pressione internazionale su Israele

Dopo un giorno di esitazioni, Hamas ha dichiarato venerdì mattina di rifiutare anche l’ultima proposta di cessate il fuoco dell’inviato americano Steve Witkoff. Era un’offerta molto favorevole a Hamas. Contro il rilascio della metà dei rapiti (10 vivi e 18 morti), gli Usa garantivano 60 giorni di tregua, con blocco delle attività militari israeliane (inclusa la ricognizione aerea per 10 ore al giorno); il ritiro delle forze israeliane sugli assi di Filadelfia (al confine dell’Egitto), Netzarim (al centro della striscia) e al confine settentrionale (rinunciando cioè alle zone occupate in questi mesi); il ripristino della distribuzione degli aiuti attraverso gli organismi internazionali (il che significa farli controllare da Hamas, a differenza di quel che è avvenuto negli ultimi giorni con la consegna diretta alla popolazione che saltava il taglieggiamento terrorista); l’inizio delle trattative finali per la pace condotte dai soliti mediatori filo-Hamas, cioè Egitto e Qatar, con la garanzia americana sulla loro “serietà”. Si trattava di sacrifici gravi per Israele, che li ha accettati solo per evitare rotture con Trump. Erano chiaramente pensati per essere attrattivi per Hamas, permettendogli in sostanza di recuperare parte delle perdite subite. Ma Hamas ha rifiutato l’accordo, com’era accaduto per decine di proposte israeliane e americane, prima degli inviati di Biden e poi di Trump. Si potrebbe ripetere a questo proposito il vecchio giudizio di Golda Meir: non perdono mai l’occasione di perdere un’occasione. Bisogna capire le ragioni di questo  masochismo. La prima è la retorica musulmana del martirio: per la tradizione islamica incarnata da Hamas, mille volte meglio morire combattendo i nemici della fede che vivere pacificamente accanto a loro. Ciò rende impossibile una vera pace  e accettabili, anzi desiderabili i sacrifici imposti anche alla popolazione civile, come Hamas ha spesso dichiarato. La seconda ragione è che l’esistenza stessa di Hamas dipende non da una vittoria reale sul campo (impossibile in partenza) ma dall’aura di eroismo e dalla vittoria di immagine che ogni accordo intaccherebbe. La terza ragione è che i rapiti sono comunque un’assicurazione sulla vita per Hamas e soprattutto un’arma per la strategia di piegare la resistenza israeliana e occidentale e per rompere il blocco sociale che sostiene lo stato ebraico (questo è il senso fondamentale del terrorismo, che ha ottenuto notevoli successi in Europa, negli Usa, ma anche in certi settori della società israeliana). Infine c’è il rifiuto dell’Iran, che dal conflitto a Gaza ricava uno schermo di protezione militare e mediatico. Insomma il minimo che Hamas ritiene di dover ottenere dalla guerra è la vittoria che consiste nel mantenere le armi e il controllo di Gaza, magari sotto mentite spoglie. I terroristi islamici hanno imparato la lezione di Mao: nella guerra asimmetrica di lunga durata i guerriglieri vincono se riescono a sopravvivere mantenendo anche una frazione delle loro forze.  Questo minimo però è molto di più di quel che Israele può concedere, perché è la premessa del progetto terrorista di rinnovare gli attacchi o per parafrasare Che Guevara “creare due, tre. molti sette ottobre”. Israele deve distruggere Hamas e svuotare “l’acqua” (la popolazione radicalizzata) in cui “il guerrigliero nuota come un pesce” (Mao). Ci sta riuscendo, ha solo bisogno di un po’ di tempo. Per questo si intensificano gli attacchi mediatici, politici e giudiziari degli alleati del terrorismo in Occidente, consapevoli o meno.

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