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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
27.05.2025 L'editoriale di Ernesto Galli della Loggia sulla guerra a Gaza: una voce nel deserto
Editoriale di Ernesto Galli della Loggia

Testata: Corriere della Sera
Data: 27 maggio 2025
Pagina: 1
Autore: Ernesto Galli della Loggia
Titolo: «Le colpe della guerra a Gaza»

Riprendiamo dal CORRIERE della SERA del 26/05/2025, a pag. 1, con il titolo "Le colpe della guerra a Gaza" l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia.

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Ernesto Galli della Loggia

Uno schieramento compatto di critici di Israele, in tutti i governi del mondo, intima a Netanyahu di interrompere le operazioni a Gaza e di non occupare la Striscia. Ma cosa avrebbe dovuto fare Israele (a prescindere da chi sia il primo ministro in carica) dopo la mattanza di suoi cittadini il 7 ottobre? La verità è che nessuno, dopo il pogrom, ha mosso un dito contro Hamas, anche chi, a partire dall'ONU, avrebbe potuto intimare la restituzione degli ostaggi. Invece Israele è stato lasciato solo. Bell'editoriale di Galli della Loggia che va anche contro la linea del Corriere, il primo quotidiano italiano che è sempre pronto ad attaccare Netanyahu e a dimenticare i crimini dei terroristi. Una voce nel deserto.

Un dato abbastanza sicuro va profilandosi: l’operazione militare organizzata da un anno e mezzo da Israele sta andando incontro a un fallimento. Israele non è sconfitto ma sta egualmente perdendo. Rintanata tra le macerie di Gaza, Hamas benché colpita duramente esiste e resista ancora, e distruggerla è pressoché impossibile senza una occupazione militare massiccia e permanente della Striscia. Che però appare difficilissima a realizzarsi.

Vuoi perché la presenza di un milione e mezzo di persone ostili in un territorio devastato e privo di qualsiasi risorsa significherebbe per Gerusalemme, in realtà, doversi far carico dell’amministrare in prima persona qualcosa che di fatto sarebbe un gigantesco campo di concentramento (per giunta con probabili episodi di terrorismo al suo interno). E poi perché contro Israele la mobilitazione internazionale — compresa quella decisiva degli Stati Uniti — è ormai tale da costituire un ostacolo virtualmente insuperabile per un progetto del genere.

Ma è troppo facile considerare chiuso qui il discorso aggiungendovi, come d’obbligo, l’immancabile condanna di Israele. Troppo facile politicamente, intellettualmente, e — per chi a questo genere di cose fa qualche attenzione — anche abbastanza vile moralmente. Chiudere così il discorso, infatti, lascia inevasa una domanda decisiva alla quale, per la verità, fin dall’inizio di questa terribile storia gli innumerevoli critici di Israele avrebbero dovuto sentirsi tenuti a dare una risposta che invece ancora non si è sentita: «Ma quale reazione avrebbe dunque dovuto avere Israele dopo il 7 ottobre per non cadere sotto la vostra censura?»

In realtà, dopo la macelleria di quel giorno nessuno in Occidente osò pensare che Israele non dovesse reagire in qualche modo. Ma a nessuno venne in mente però, di organizzare, ricorrendo a tutti i canali disponibili (diplomatici e non), una pressione continua, decisa, crescente verso il mondo islamico perché Hamas fosse costretto a restituire immediatamente l’enorme numero di ostaggi nelle sue mani: che era il vero punto anche emotivamente in quel momento decisivo. Tutti deprecarono, ma nessuno fece niente.

Che io ricordi nessuno dei critici di oggi ebbe allora il coraggio, l’intelligenza o semplicemente la fantasia, non dico di fare, ma di proporre alcunché. L’Onu, ad esempio, che avrebbe potuto minacciare di ritirare la sua «alta protezione» su Gaza, di spezzare il suo legame ombelicale del più vario tipo con la società locale, di interrompere l’invio di cibo, medicine, finanziamenti e quant’altro serviva da anni a tenere in vita la Striscia, si guardò bene dal muovere un dito (e anzi con ogni probabilità accettò che una parte degli ostaggi fosse rinchiusa in locali sotto la sua giurisdizione). E così tutti gli altri: «Sì, va bene — sembrò che dicessero — centinaia di inermi, di donne e di bambini rapiti dopo la mattanza e tenuti a marcire al gelo e nell’oscurità, sì, certo, ma suvvia che sarà mai dopo tutto...». Israele insomma fu lasciato solo. Dove stavano in quelle ore, in quei giorni — è lecito chiederlo? — i corifei del diritto internazionale umanitario, della riprovazione decisa dei crimini di guerra contro i civili, con tutta la sequela di appelli che invece sentiamo levarsi da mesi contro lo Stato ebraico? Che ne era in quei giorni, in quelle ore, della loro voce oggi tonante? La verità è che Israele fu lasciato assolutamente solo a vedersela con i briganti del terrorismo islamista. E chi non capisce (o non vuol capire) il peso che in tutto lo svolgimento successivo dei fatti ha avuto questa drammatica solitudine — sinistramente echeggiante la secolare solitudine ebraica di fronte alla ferocia dei suoi nemici — non può capire nulla di quanto è accaduto. Lasciato comunque solo, Israele, simile a un Golia impazzito di rabbia e di desiderio di vendetta, perse la testa.

Cedette alla tentazione di farla pagare con la vita agli assassini dei suoi figli, e si gettò in una difficilissima operazione terrestre contro gli esecutori invece di rivolgersi contro il mandante, cioè contro l’Iran. So bene quanto sia a rischio di ridicolo la parte dello stratega da tavolino: ma se si tratta di operazioni militari come si fa a parlarne senza correre questo rischio? Con la sua schiacciante superiorità aerea Israele avrebbe potuto facilmente intimare a Teheran che fin quando non avesse obbligato Hamas a restituire gli ostaggi, la sua aviazione ogni dodici ore avrebbe raso al suolo un aeroporto, una base militare, una centrale nucleare, un’autostrada, una centrale elettrica dell’Iran. E così via di seguito: senza colpire un civile ma avrebbe riportato il Paese indietro di un paio di secoli.

Mi pare difficile credere che il governo della Repubblica islamica avrebbe potuto resistere a un simile ultimatum senza mettere a rischio la propria sopravvivenza. Così come mi sembra difficile che gli Usa o gli altri Paesi islamici, dall’Egitto all’Arabia Saudita, avrebbero avuto realmente qualcosa da obiettare se non a parole, in qualche dichiarazione destinata a non lasciare traccia.

Come si sa le cose sono andate invece ben diversamente. Israele si è infilato a testa bassa nel tunnel senza uscita di qualcosa che sempre più assomiglia a uno sterminio. Uno sterminio che tuttavia ha questa bizzarra singolarità: che potrebbe essere fermato in ogni momento se solamente chi dice di rappresentare gli sterminati, cioè Hamas, decidesse di restituire i pochi ostaggi ormai sopravvissuti. Ciò che però nel loro cinismo i terroristi, naturalmente, si guardano bene dal fare. Potendo così oggi assaporare una doppia vittoria: dopo aver umiliato il 7 lo Stato ebraico, tenerlo inchiodato al ruolo di oggetto dell’esecrazione universale avendo aggiunto agli ebrei catturati un anno e mezzo fa l’intera popolazione palestinese di Gaza come propri ostaggi.

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